Chissà se qualcuno farà caso al fatto che questa storia è la storia di un morto, e che il verdetto della Cassazione riguarda il ricorso d’una "parte civile" che piange il suo ucciso.Dice la Cassazione che procurare la droga a un gruppo partecipando al consumo di gruppo non è reato. Detto così, non commuove nessuno, e se non è reato cercheremo cos’è. Perché qualcosa d’altro è, è un morto. Una tragedia. Diciamo che mentre si discorre di droga di gruppo si sta osservando (osservando con giuridico rispetto) l’accadere di una "banale tragedia" d’un morto.Un morto di droga "collettiva" entra oggi negli annali della giurisprudenza. Gli addetti registrano: una notizia banale accaduta dei giorni dei morti di droga per "fatti loro". Una vicenda malfinita del libero consumo? La Cassazione decide. Che cosa vuol dire se un compagno di droga compra droga per i suoi compagni di droga? Niente di penale, questa "non-condanna" del fornitore di droga collettiva, di per sé non era neanche una notizia. L’aveva già detto anni fa la stessa Cassazione, ancora a sezioni unite come oggi (Cass. n. 4 del 1997) considerando il consumo di gruppo come una variante plurima del consumo personale, esentato da pena, secondo la regola scelta in tempi già remoti (saggia o stolta che sia stata) di far neutro il consumo e delitto la fornitura. E dunque l’acquisto del fabbisogno di droga, fatto per il gruppo, sarebbe una provvista di possibile uso personale (collettivizzato), immune da sanzione penale.. Con i corollari concettuali, rotti alle infinite ipocrisie del bilancino giuridico messo lì a pesare la quantità modica e immodica, terapeutica e non terapeutica. In questo orizzonte, lasciar crepare in pace chi vien fatto crepare non è reato.Che pena, il crepare tutto per bene. Ma a chi, a chi si vuol bene? In faccia a chi si crepa? Negli anni intermedi i giudici della stessa Cassazione hanno diversamente considerato il rifornimento di droga per il consumo di gruppo, colpendo duro. Oggi quella riflessione giuridica sembra una storia scavalcata, al pari della dottrina che si era messa di traverso con i suoi dubbi. Storie di vite distanti dalla vita, droga come negazione di vita, giustizia come risveglio di vita. Se la nuova sentenza venisse ora letta come suggestione di "liberi spinelli collettivi", andremmo incontro all’inganno "drogante" di un male che si traveste. No, non si può chiamar bene il male. La droga in sé resta male. Non è vita, è male. E può starci accolto che resta senza castigo penale, nei casi che non voglion castigo, quando il castigo sarebbe peggio, nel malo bilancio che invoca rimedio, e soccorso, e salvezza. Ma l’unico indirizzo di rimedio non è quello di complicità, è quello di guarigione.La scena che ci mette sott’occhio la cronaca del "collettivo" di droga resta storia di morte. Seguono per noi i quesiti, su quale distanza ci separa da una coscienza persuasa del bene. Ad essa allacciamo, al pari della difesa della vita, la dissuasione dalla droga, il rifiuto di condiscendenze, l’aiuto alla liberazione. È questa la nostra libertà: non uno schermo di paura patteggiante e sconfitta, ma una speranza investita, a suo modo intrepida, a suo modo creativa.