Un cortile dell'Università Ben Gurion del Neghev
Gli studiosi e i ricercatori debbono essere politicamente impegnati o restare nella loro torre d’avorio per non “contaminare” il loro ruolo con interessi esterni all’accademia? Il dibattito è antico e si rinnova a ogni occasione. Ma ammesso che poi si decida di essere intellettuali pubblici oltre che attivi in modo neutrale nel proprio settore specialistico, resta la decisione circa il campo nel quale schierarsi. Non c’è bisogno di citare vicende lontane e paradigmatiche come il caso Dreyfus, sebbene proprio la vicenda del militare francese di origine ebraica che divise la Francia a cavaliere tra Ottocento e Novecento sembra essere un riferimento possibile della diatriba che accende l’università italiana in queste settimane a proposito della guerra in Medio Oriente.
Come è ormai noto, a una prima lettera-appello a ministri e rettori che sollecita, tra l’altro, l’interruzione dei rapporti con gli atenei di Israele di fronte ai bombardamenti su Gaza e in genere alle politiche di lungo periodo perseguite da Tel Aviv nei confronti della popolazione palestinese ha risposto una raccolta di firme sulla piattaforma change.org contro la proposta di boicottaggio. Sono ormai quasi diecimila le firme (tutte di esponenti accademici) in calce ai due documenti, più o meno equamente ripartite. In precedenza, prese di posizioni e manifestazioni si sono susseguite a partire dal 7 ottobre, data dell’attacco terroristico di Hamas contro i civili israeliani e della risposta delle forze armate dello Stato ebraico.
Tra gli studenti (nettamente - ieri un’altra occupazione a Padova per chiedere la condanna di Israele) e i docenti (in maggioranza), le voci più critiche si sono indirizzate verso quella che è ritenuta una risposta eccessiva decisa del governo Netanyahu, che sta colpendo anche donne e bambine nella Striscia di Gaza senza rispettare, si dice, il diritto internazionale umanitario che impedisce di bersagliare scuole, ospedali e luoghi di culto. Fin qui, un dibattito doveroso e comprensibilmente accesso che però, secondo qualcuno, è stato venato da un latente antisemitismo. Ad accendere la polemica la richiesta di coinvolgere nelle azioni di protesta anche le università israeliane. Di qui, come detto, la mobilitazione di segno opposto.
Spiega Pierluigi Musarò, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna, tra i promotori della lettera-appello: «Noi chiediamo il cessate il fuoco e il rispetto del diritto internazionale. Lo strumento per fare pressione è anche una mobilitazione intellettuale non violenta attraverso l’interruzione dei rapporti con le università israeliane. Questo è un mezzo, non il fine. Infatti, il boicottaggio accademico è uno strumento pacifico adottato su invito della comunità universitaria palestinese da alcune tra le più importanti organizzazioni accademiche internazionali, e appoggiato da intellettuali di spicco, inclusi intellettuali ebrei e israeliani, per porre pressione sulle istituzioni accademiche israeliane sino a che non porranno fine alla loro complicità con le violazioni dei diritti della popolazione palestinese occupata secondo il diritto internazionale».
L’eco della contesa, in un Paese che a livello ufficiale si è schierato senza esitazione dalla parte di Tel Aviv, è subito arrivata anche agli accademici di Israele, che hanno molti legami con colleghi italiani. «Come studiosi - commenta Nadav Davidovitch, professore di Medicina alla Ben Gurion University del Neghev - ci impegniamo per i valori di verità, libertà, moralità, democrazia, compresa la protezione delle minoranze e dei diritti delle donne. Le nostre carriere e le nostre vite sono costruite sulle fondamenta della libertà accademica e della produzione di conoscenza a beneficio dell’umanità. Questi sono tutti valori fondamentali che Israele e il mondo accademico israeliano hanno casi, l’opposto dei valori che promuove Hamas. Sono anche i valori condivisi che sono alla base del legame tra ricercatori italiani e israeliani, un rapporto profondo e forte tra persone che la pensano allo stesso modo e che ha portato a oltre 10.000 pubblicazioni accademiche congiunte solo negli ultimi cinque anni».
Precisa Francesca Biancani, docente di Storia del Medio Oriente e Relazioni internazionali all’Università di Bologna: «Le università israeliane ricomprendono certo al loro interno studiosi che sono in contrasto con le politiche dell'establishment. Ma è importante sottolineare come il boicottaggio accademico, il quale è tra l'altro normato da regole chiare e precise, non limiti la possibilità di chi vi aderisce di intrattenere rapporti di collaborazione con singoli colleghi israeliani, piuttosto agisce sulla cooperazione a livello istituzionale. Ad esempio: nessun docente israeliano si vedrà mai ristretto nelle proprie attività in termini di partecipazione a convegni, conferenze e progetti di ricerca che non coinvolgano trasferimenti di fondi da o per la sua università di appartenenza. Il boicottaggio accademico può essere anche un modo per stigmatizzare le sistematiche restrizioni alla libertà accademica imposte da decenni da Israele ai colleghi delle Università palestinesi per via dell'impossibilità di muoversi e viaggiare liberamente».
Cristina Bettin, presidente dell’Associazione degli accademici e scienziati italiani in Israele, ritiene «vergognoso che chi ha sottoscritto l’appello non si renda conto che non è isolandoci e boicottandoci che si ottiene una vera pace. Il boicottaggio è immorale, non siamo noi accademici i responsabili di quello che è successo, anzi moltissimi di noi si sono schierati, e continuano a farlo, contro la politica di Netanyahu, rivendicando i diritti dei palestinesi, loro stessi vittime ed ostaggi di Hamas». Citando una recente lettera aperta scritta dal gruppo che coordina, la studiosa dice che «risulta triste ma soprattutto estremamente pericoloso vedere ed assistere a queste manifestazioni, come accademici non siamo noi i responsabili delle politiche governative degli ultimi anni condotte in Israele, anzi, molti di noi sono stati tra i primi a criticarle e a lottare assieme al popolo palestinese per far sì che i loro diritti civili e sociali siano acquisiti, cosa che a quanto pare i nostri colleghi non prendono in considerazione».
Tra i firmatari del sostegno agli atenei dello Stato ebraico, Paolo Miccoli, già direttore della Scuola di Specializzazione in Chirurgia dell’Università di Pisa e attualmente presidente di United, associazione delle università digitali italiane, spiega così la sua adesione. «Ritengo l’iniziativa del “boicottaggio” spropositata e immotivata, proprio perché, come altre simili, tende solo ad isolare le componenti culturalmente più avanzate come le istituzioni universitarie. Anzi credo che proprio queste possano essere le più titolate a far progredire quel processo di pace che, spero, sia il fine ultimo di ogni intellettuale ed uomo di scienza». Di fronte alla richiesta di interrompere i rapporti istituzionali, Miccoli afferma che essa «non sia assolutamente non in linea con la missione stessa dell’università. Questa è, e dovrebbe sempre essere, il luogo deputato alla legittima critica ma sempre in uno spirito di dialogo e di comprensione che sono il collante della ricerca».
“Certamente penso che le Università siano il luogo privilegiato per sviluppare pensiero critico e libertà di espressione – afferma Simona Taliani, docente nel Dipartimento di Culture, politica e società dell’università di Torino -. Chiediamoci se lo sono, se riescono sempre a esserlo o, meglio, a quali condizioni storiche ciò è possibile. Chiediamoci cosa sta accadendo in Europa. Come si fa a parlare criticamente e liberamente se si viene avvicinati ai "sostenitori di Hamas" o additati come "cattivi maestri"? Possiamo veramente parlare? In Germania è stato bloccato il premio alla scrittrice palestinese Adania Shibli e qualche anno fa gli organizzatori della Ruhrtriennale hanno ritirato l'invito a uno dei filosofi africani più noti oggi, Achille Mbembe, tacciandolo di antisemitismo per aver aderito a una campagna di boicotaggio e criticato le politiche d'occupazione israeliane. In Francia abbiamo testimonianze di colleghe e colleghe "ripresi" dai direttori dei loro rispettivi dipartimenti e centri di ricerca e accusati di "apologia di terrorismo" se esprimono solidarietà al popolo palestinese e chiedono il cessate il fuoco”.
Raffaella Rumiati, neuroscienziata della Sissa a Trieste, fra i promotori del contro-manifesto auspica che «si rafforzino e moltiplichino i programmi di collaborazione e cooperazione con università israeliane, convinti che la ricerca e la formazione siano dei formidabili acceleratori dei processi democratici e di inclusione dei popoli. L’ampia adesione alla nostra petizione dimostra che la nostra preoccupazione è presente nell’accademia e nella società». La buona fede di tutti non è in discussione (fino a prova contraria). E non sarà soltanto qualche firma in più a un appello o all’altro a stabilire chi ha più ragioni dalla propria parte. Forse ciò che serve è proprio il rigore degli intellettuali animato dalla passione civile ma non deformato dall’ideologia. Se è vero che al dibattito mancano le voci di accademici palestinesi, per cui anche in Israele non sembra esserci ora molta attenzione, non si può negare che mettere nel mirino le istituzioni del sapere israeliane nel loro complesso può dare la sgradevole impressione che vi sia una colpevolizzazione collettiva, anticamera del peggiore pregiudizio.