Presi dall’euforia per gli Europei di calcio e dal clamore polemico di altri fatti politico-parlamentari, non ci siamo quasi accorti che la riforma fiscale – già annunciata da Mario Draghi e poi inserita nel Pnrr – sta gradatamente entrando nell’iter procedurale che presto la porterà nella fase in cui non sarà più possibile condizionare le sue sorti. Infatti, la formula verso la quale Governo e Parlamento si stanno orientando è quella della legge delega, di una riforma, cioè, definita dal Governo per espresso mandato del Parlamento che si limita a definire i princìpi generali a cui la riforma deve ispirarsi. Il 30 giugno scorso è stato licenziato un documento a firma congiunta delle Commissioni Finanze della Camera e del Senato che definisce le linee guida da fornire al governo per il varo della riforma.
L’esecutivo ha intenzione di fare presto, ed entro questo mese di luglio la legge delega sarà formalizzata e presentata al Parlamento che verosimilmente l’approverà senza ulteriore dibattito, considerato l’ampio consenso raggiunto nelle Commissioni Finanze. Ma visto il forte impatto che l’architettura fiscale ha sulle nostre vite, sugli equilibri sociali, sul modello di sviluppo e alla fine anche sull’ambiente, sarebbe bene che nel Paese si attivasse quel dibattito che in Parlamento non si intravede.
Soprattutto alla luce del fatto che il documento licenziato in maniera congiunta dalle due Commissioni suscita più di una perplessità. Un primo sussulto arriva leggendo che uno degli obiettivi forti della riforma è la crescita. Il testo non fa neanche uno sforzo per definirla almeno in termini di sostenibilità e ignorando qualsiasi dibattito sulla questione climatica, sui limiti delle risorse, sulla problematica dei rifiuti: i nostri onorevoli trattano la crescita ancora alla vecchia maniera, solo in termini di Pil. Come se l’economia potesse essere trattata da materia a se stante e, soprattutto, solo in termini di quantità e non anche di qualità sociale e ambientale. Ma quel che crea ancora più sconcerto è che l’equità non è compresa fra gli obiettivi.
Eppure all’inizio di ogni anno, quando Oxfam ci consegna i dati sulle disuguaglianze, ci scandalizziamo. Apprendere che il 10% più ricco della popolazione italiana detiene il 56% della ricchezza privata, mentre il 50% più povero si ferma al 3,6%, ci riempie di sdegno. Ma ci fermiamo lì senza capire che uno dei meccanismi che maggiormente influenzano la distribuzione della ricchezza è proprio il fisco.
Se oggi siamo arrivati a disuguaglianze così scandalose è anche a causa di un fisco via via più accomodante con i detentori di rendite e con le classi più agiate. Passo dopo passo, in Italia come in tutti i Paesi del mondo, si sono ridotte le imposte sugli alti redditi o sugli alti patrimoni, compensando le perdite con aumenti generalizzati sui consumi e sul prelievo dei redditi medio-bassi. Per cui se si vuole fare giustizia è proprio dal fisco che bisogna ripartire, con tre grandi riforme: dei redditi, dei patrimoni, delle eredità. Dei tre capitoli, il documento licenziato dalle Commissioni finanza di Camera e Senato affronta solo il primo, confermando il «reddito individuale» (e non familiare) come «unità impositiva», pone come proposta forte l’abbassamento del carico fiscale riferito ai contribuenti che si collocano nella fascia di reddito fra 28mila e 55mila euro l’anno. All’incirca 7 milioni di contribuenti, il 17% di quanti sono assoggettati all’Irpef, un gruppo che paga un’aliquota media del 30%.
I 32 milioni di cittadini che si trovano nelle fasce inferiori (il 78% dei contribuenti) potrebbero non capire il perché della loro esclusione, soprattutto se consideriamo che chi si trova nel primo scaglione, fino a 15.000 euro, paga un’aliquota media del 23% (fatta salva la 'no tax area'), sostenendo un sacrificio ben più ampio di chi sta sopra. Ma ciò che assolutamente non si capisce è perché nessuno dice che contemporaneamente all’abbassamento delle aliquote dei primi tre scaglioni, bisogna introdurre nuovi scaglioni altamente progressivi per i redditi che si collocano oltre i 75mila euro.
La riforma del 1974 prevedeva 32 scaglioni, oggi solo cinque, giungendo all’assurdo che chi guadagna tre milioni di euro, paga un aliquota media del 42,7% molto vicina al 41% di chi guadagna 300.000 euro che è dieci volte di meno. Il tutto aggravato dal fatto che le Commissioni Finanze dei due rami del Parlamento continuano ad avallare la non cumulabilità di tutti i redditi, pur riconoscendo che la pratica della sola tassazione alla fonte con un’aliquota fissa su redditi come quelli derivanti da affitti, rendite finanziari, attività di impresa, «riduce la base imponibile dell’Irpef di circa un decimo». Se consideriamo che la riforma così come è stata ipotizzata dalle due Commissioni potrebbe comportare una riduzione di gettito di 40 miliardi, si rende ancor più necessario riflettere sulla cumulabilità di tutti i redditi e sull’introduzione di nuovi scaglioni.
Per finire, il premier Draghi ha sempre detto che la riforma fiscale non può essere fatta a compartimenti stagni, ma deve essere complessiva. E ha ragione. Ma ciò significa che l’attenzione deve essere rivolta anche ai patrimoni e alle eredità, superando il blocco ideologico attualmente esistente che impedisce anche solo di aprire la discussione su questi temi. Equità e sostenibilità non possono essere affrontati ad intermittenza solo per mettere a tacere la nostra coscienza. Vanno accompagnati con scelte coerenti che li trasformino in realtà.