Per la seconda volta in pochi anni la Consulta interviene sulla questione del cognome da attribuire ai figli e dichiara l’illegittimità costituzionale «di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi». Secondo il principio di uguaglianza tra madre e padre e nell’interesse dei figli, si spiega, i genitori insieme decideranno quale cognome attribuire ai nuovi nati. Se quello di entrambi o, altrettanto liberamente, solo quello del padre o della madre.
Ora, si legge nel comunicato della sentenza, sarà compito del legislatore tradurre queste indicazioni in una norma, si spera, chiara e rispettosa sia di quanto deciso dai supremi giudici, sia della complessità di una questione in cui gli aspetti giuridici si sovrappongono a quelli antropologici, simbolici, anche identitari. Sul piano ideale la sentenza di ieri appare del tutto allineata a uno stato di cose già prevalente e largamente condiviso nei fatti. Anche sotto il profilo teorico, a parte qualche stravagante e residuale sostenitore del maschilismo come baluardo delle tradizioni familiari, non c’è più nessuno che non riconosca la necessità di dare concretezza a valori come la reciprocità e la pari dignità di donna e uomo sia nella vita di coppia, sia nell’impegno educativo.
Si tratta di una scelta che promuove il bene autentico della famiglia e conferma che nelle dinamiche ordinarie della vita familiare e, prima ancora, nella verità biologica e nella sfera morale, la cura e l’educazione dei figli devono svilupparsi su un piano di pari responsabilità, con compiti e funzioni che potranno differenziarsi, ma non possono mai risultare né prevaricanti l’uno sul-l’altro, né rigidi, né tantomeno subordinati. Sappiamo che troppo spesso, purtroppo, succede ancora il contrario, con un impegno asimmetrico che vede tante madri lasciate sole a combattere su troppi fronti – lavoro, figli, gestione domestica ordinaria – e altrettanti padri tuttora incapaci di assumere il minimo sindacale delle responsabilità coniugali e familiari. In questa prospettiva, la sentenza della Consulta, oltre che riconoscere una situazione assodata, potrebbe apparire anche una sorta di auspicio nella logica del riequilibrio.
Non si tratta più di decretare soltanto, anche sotto il profilo giuridico, la fine del paternalismo e delle sue derive peggiori – maschilismo e discriminazioni di genere – ma di richiamare quella che obiettivamente è oggi la parte più debole della coppia a un sussulto di nuovo protagonismo per il bene della famiglia e delle generazioni. Se insieme, donna e uomo, sono chiamati al compito di costruire nuovi percorsi di futuro e di speranza per la propria famiglia e per la società intera, insieme dovranno anche condividere la scelta dell’attribuzione del cognome dei figli. Ma per offrire concretamente ai genitori questa opportunità è indispensabile, come detto, che il Parlamento confezioni una norma capace di non trascurare nulla di una questione comunque difficile. I tentativi del passato non sono incoraggianti.
Naufragato il testo già approvato dalla Camera il 24 settembre del 2014, ignorati di fatto i tanti pronunciamenti europei che si sono sovrapposti e intrecciati alle decisioni di casa nostra, le criticità rimangono forti. E altrettante le questioni che le norme applicative della sentenza della Consulta dovranno chiarire addentrandosi in una casistica complessa a cui qui possiamo soltanto accennare. Come comportarsi in caso di divorzio e successiva adozione? Al nome del figlio si potranno aggiungere due o tre cognomi oltre a quello deciso inizialmente?
E con quale ordine attribuire il doppio cognome? Si potranno scegliere per due fratelli cognomi diversi, con prevalenza dell’uno o dell’altro in modo alternato? Speriamo non succeda. Una legge confusa, o peggio, ideologica, rischierebbe di vanificare quei richiami all’uguaglianza e al rispetto reciproco strettamente correlati alla sentenza della Consulta. E a farne le spese sarebbero ancora una volta le famiglie.