Il film “La zona di interesse”, Oscar come miglior film straniero e vincitore del premio speciale della giuria di Cannes, racconta la vita quotidiana del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e della sua famiglia. La villetta col giardino dove l’ufficiale tedesco vive con la moglie e i figli confina con il campo dove arrivano i deportati ebrei. Ma il piano della vita famigliare e quello del campo di sterminio sono completamente separati. Binari paralleli destinati a non incontrarsi. Sandra Huller, l’attrice protagonista è particolarmente efficace nel mostrare la distanza siderale tra due mondi fisicamente vicinissimi ma di fatto abissalmente lontani, diametralmente antitetici.
Il regista riprende i temi di cui si sono occupati autori come Hannah Arendt (La banalità del male) e Zygmunt Bauman (Modernità e olocausto): quando diventa sistema, il male è capace di installarsi nella quotidianità fino a diventare invisibile. In tutte le epoche, in qualsiasi società – anche nella raffinata Germania – la vita di tutti i giorni può imparare a convivare con il male estremo, lasciato fuori dall’uscio di casa. Nella più totale e fredda indifferenza.
La nostra generazione si trova a dover fare i conti con l’enorme dramma umano dell’emigrazione (secondo l’Oim, l’agenzia dell’Omu per le migrazioni, sono 281 milioni i migranti a livello globale, a cui si devono aggiungere 117 milioni di persone in movimento a causa di conflitti, violenze, disastri). Effetto dell’accelerata globalizzazione degli ultimi decenni – che ha unito il mondo dal punto di vista della tecnologia, della mobilità, della comunicazione lasciando però enormi differenze dal punto di vista delle concrete possibilità di vita – i fenomeni migratori costituiscono uno dei grandi snodi della contemporaneità.
Nessuno sa esattamente come gestire gli squilibri strutturali che ne sono all’origine. Ma sta di fatto che dietro a questi numeri si consumano vite concretissime, ormai sradicate dai vecchi equilibri della sussistenza senza però essere ammesse al banchetto della società del benessere.
Voce di uno che grida nel deserto, le parole di Papa Francesco sulla necessità di non assumere come inevitabile l’inaccettabile strage di coloro che cercano di raggiungere l’Europa non sono state granché riprese dal circuito dell’informazione. Atterrato ieri a Giacarta, prima tappa del suo viaggio in Asia e Oceania, il Pontefice ha scelto di incontrare subito in nunziatura malati e rifugiati bambini rifugiati.
C’è un evidente imbarazzo nella nostra cultura di fronte a un problema che inquieta. È chiaro che non si può accogliere tutti. Ma è altrettanto chiaro che non si può far finta che la cosa non ci riguardi. Né si può accettare di cancellare il senso della sacralità di ogni singola vita umana, che è uno dei capisaldi della nostra cultura.
Eppure, la nostra società si rifiuta di guardare in faccia la realtà. Quasi che si trattasse di un capriccio di gente che vuole lasciare la propria terra per venire a godersi i piaceri di quella società del benessere che abbiamo sbandierato in tutto il mondo. E che poi un Bengodi non è, dati i tanti problemi anche di chi vive in Occidente.
Il senso di giustizia si alimenta della reazione empatica di cui l’uomo è capace. È perché siamo capaci di sentire il dolore dell’altro che l’umanità ha potuto avanzare sulla strada della civiltà. Ma se noi non siamo più scossi davanti ai barconi che affondano nel mare Mediterraneo, e se, anzi, abbiamo programmaticamente deciso di non parlarne più per non farci inquietare, che cosa resta della nostra umanità? Non rischiamo di essere un po’ come la famiglia del comandante Rudolf Hoss che non voleva sapere cosa accadeva al di là del muro di confine con il campo? D’altra parte, non ci sarà alcuna politica che avrà il coraggio di affrontare seriamente la questione se dall’opinione pubblica non si eleverà un grido di giustizia e umanità. Non dimentichiamo che lo stato di diritto e la stessa democrazia sono sorti esattamente per la spinta ideale di tanti visionari che poi hanno fatto la storia.
Ecco perché il richiamo del Papa è tutt’altro che retorico. Al contrario, le parole di Francesco hanno il timbro della concretezza e del realismo. Ognuno di noi ha la possibilità di farsi interrogare da questa enorme questione: è proprio la consapevolezza di non avere la soluzione che reclama il contributo di tanti uomini e donne di buona volontà capaci di spingere avanti la macchina lenta della politica e della burocrazia. Forse tutta questa indifferenza rivela solo paura: basta guardare le previsioni demografiche per capire come andranno le cose. Da qui al 2050 l’Africa crescerà di 700 milioni di persone, arrivando a 2,5 miliardi di abitanti, mentre l’Europa resterà più o meno stazionaria attorno ai 450 milioni. Uno squilibrio destinato a creare una pressione enorme.
Pensare di risolvere il problema semplicemente bloccando gli ingressi non ha senso. Per la nostra dignità e per il futuro dei nostri figli, partiamo dalla parola di Francesco. E rimettiamoci in cammino.