La vera crisi della politica
venerdì 11 maggio 2018

La situazione di stallo che si è a lungo determinata nella politica italiana dopo il voto del 4 marzo è stata finora oggetto di molte, e attente riflessioni. Proprio mentre lo stallo potrebbe sciogliersi con il «contratto» che stanno negoziando il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio e la Lega di Matteo Salvini, vale la pena di soffermarsi su un aspetto della crisi in atto che sinora è rimasto in ombra. Un aspetto che va assai al di là dei limiti e delle debolezze dei partiti e movimenti oggi sulla scena. Potremmo considerarla e definirla una vera e propria mutazione antropologica.

Per una lunga stagione – quella iniziatasi con illuminismo e conclusasi, dopo oltre due secoli, nella fase conclusiva del Novecento – la politica era stata il punto di incontro, e talora di scontro, fra diverse, ma non sempre opposte, visioni della vita e della politica. Transigenti e intransigenti, liberali e monarchici, fascisti e antifascisti, comunisti e democratici cristiani – per fare soltanto alcuni esempi – si contrapponevano frontalmente in ordine alle rispettive visioni del mondo, ma avevano tutti in comune una visione alta della politica: per intenderci, sia pure semplificando, i termini del problema, una idea di politica (e di società) e non soltanto una prassi di azione e di governo.

A partire dagli anni conclusivi del XX secolo – e con il concomitante fenomeno della crisi delle ideologie e del "primato della prassi" – si è verificata una presa di distanza sempre più netta da quelli che, un poco sprezzantemente, venivano definiti i «massimi sistemi» e si poneva l’accento sulla «concretezza» della politica: dalla teoria alla prassi, dunque.

Senonché questa forma di «concretezza» – perché anche la politica di un De Gasperi o di un Cavour era "concreta"! – è stata declinata sempre più in termini pratici, se non addirittura schiettamente materialistici (postuma rivincita di Karl Marx...). Ciò che più conta è il «reddito spendibile», è come «arrivare alla fine del mese»... I grandi interrogativi della politica non riguardano i valori (ritenuti una fuga dalla realtà), bensì i redditi e i grandi «confronti» concernono ormai quasi soltanto la misura e le forme di allocazione dei redditi. Di qui una strana e un poco paradossale corsa a chi promette di più e mostra di sapere garantire di più l’incremento e la buona distribuzione delle risorse.

Nasce da questa svolta della politica, a parere di chi scrive, l’attuale accesa conflittualità della politica e la lotta disperata a chi «offre di più». Né i cattolici-elettori, a quanto sembra, sono esenti da questa tendenza.

La risposta sta in un ritorno alle ideologie, dunque? No, in alcun modo, perché esse hanno fatto il loro tempo; Sì, invece, al «ritorno ai valori» soprattutto a quelli che stanno alla base della convivenza civile: l’onestà, la credibilità, lo spirito di servizio, l’attitudine al dialogo, la disponibilità all’ascolto dell’altro (virtù, tutte, di cui troppi sembrano aver smarrito la memoria).

Ai cattolici – e a tutti gli uomini di buona volontà – incombe il dovere di integrare la «politica degli interessi» con la «politica dei valori », quelli stessi che vengono chiaramente indicati dalla Carta costituzionale, in qualche modo eredi nel segno di un pronunciato personalismo della triade – non solo giacobina ma anche cristiana – libertà, eguaglianza, fraternità. Il 'massimo' della vita non è l’aumento del reddito, ma la creazione di una società giusta nella quale possa maturare e crescere quell’amicizia civile indicata già da Tommaso d’Aquino e poi ripresa da tutta la tradizione del cattolicesimo democratico. Una società buona è preferibile a una società opulenta. E per essa vale bene la pena di lottare e, se, necessario, di soffrire.

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