Una parte del muro nella zona di confine della capitale cipriota
«Da quel lato c’è una moschea. Quella, invece, è una chiesa greco ortodossa». Salpy Eskidjian indica prima il nord e poi il sud, dal terrazzo del suo ufficio. Siamo nel cuore di Cipro, a Nicosia. L’ultima capitale al mondo ancora divisa a metà da un muro. All’interno della buffer zone, la zona cuscinetto voluta dalle Nazioni unite, nel 2011 è stata creata la Home for Cooperation. Un edificio di due piani, strappato all’oblio della terra di nessuno. Oggi è un territorio neutrale, dove operano una decina di organizzazioni non governative dedicate al dialogo tra le due comunità, quella di lingua turca e quella di lingua greca, separate dalla guerra del 1974. Salpy è un’esperta di dialogo inter-religioso. Viene dalla Cipro greca, ma la sua famiglia è di origine armena. Coordina il progetto Religious Track, voluto dall’Ambasciata di Svezia a Cipro. Un tavolo che riunisce tutte le componenti religiose del nord e del sud, per cercare un dialogo. «Quello cipriota non è un conflitto religioso – puntualizza Salpy – ma anche le diverse componenti religiose possono dare un contributo al processo di pace. Un paio di anni fa sembrava che la soluzione fosse a portata di mano. Poi il processo si è interrotto. Almeno quello politico e diplomatico. Noi lavoriamo per far progredire quello più profondo, che è culturale e sociale. E di cui il dialogo interreligioso è parte fondamentale. Questo edificio simboleggia questa sfida».
I negoziati per la riunificazione sembravano dover giungere ad un successo, negli scorsi anni. Ma sono naufragati, esattamente un anno fa, nella cittadina svizzera di Cranmontana. Determinante l’intervento della Turchia, che ha rigettato l’ipotesi di un ritiro delle truppe dalla parte settentrionale dell’isola. Quella che venne invasa nell’estate del 1974. Da allora il territorio è tagliato trasversalmente per mezzo di una green line che separa la Repubblica di Cipro, oggi parte dell’Unione europea, dalla Repubblica turca di Cipro nord, riconosciuta solo da Ankara. Le Nazioni Unite vigilano sulla zona cuscinetto che inghiotte villaggi e quartieri, tagliando in due la Capitale. A Nicosia le strade si interrompono davanti a vecchie barricate fatte di barili, filo spinato e sacchetti di sabbia. Di qua, i chioschi di gyros pita sponsorizzati dalla birra Keo. Di là i doner kebab, con il marchio della Efes. A una manciata di metri dalla Home for Cooperation, oltre il Ledra Palace check point, cambia il mondo. L’alfabeto greco lascia il posto a quello turco sui segnali stradali e sulle insegne commerciali. Ovunque campeggia l’ay yildiz, la bandiera rossa di Turchia, con la mezzaluna e la stella, accanto a quella bianca della Repubblica di Cipro nord.
La redazione del quotidiano Afrika si trova a pochi metri. Al secondo piano di un piccolo edificio, circondato dall’ambasciata turca e dal palazzo del presidente turco-cipriota Mustafa Akinci. Sener Levent, storico editore del giornale, è da sempre una delle voci più critiche nei confronti della presenza militare di Ankara nella Repubblica di Cipro nord. Indica sul portone d’ingresso i fori dei proiettili che un assalitore sparò a bruciapelo, nel 2011, con l’obiettivo di ucciderlo. «Afrika è un giornale scomodo – dice, spalancando un sorriso disarmante – perché non ha paura di chiamare le cose con il proprio nome. Quella turca a Cipro è un’occupazione». Lo scorso 27 gennaio, sulle colonne del giornale, Levent aveva definito l’intervento turco ad Afrin, nel Kurdistan siriano, come una nuova operazione Cipro. Ne era seguito un duro attacco da parte del presidente turco Recep Tayyp Erdogan. «Il suo discorso era un invito ai 'fratelli ciprioti' perché facessero 'il necessario' – racconta – il giorno dopo, decine di persone hanno assalito la nostra redazione, rompendo i vetri e penetrando negli uffici. Eravamo terrorizzati. La polizia è intervenuta con molto ritardo». All'aggressione è seguita una sollevazione popolare senza precedenti da parte dei cittadini di Nicosia nord, che hanno protestato in strada contro la censura e le ingerenze di Ankara. «I ciprioti di lingua turca accettano malvolentieri queste interferenze – spiega Levent – compongono una società ancora gelosa dei propri diritti, specie quello di espressione. Sono musulmani, ad esempio, ma il loro Islam è secolarizzato. Dovrebbero lottare con più forza, assieme ai ciprioti di lingua greca, per riconoscere i rispettivi tratti comuni. Dovrebbero mescolarsi. E invece restano sotto scacco di interessi esterni. Quelli della Turchia e della Gran Bretagna, soprattutto». Il Regno Unito, ex potenza coloniale, mantiene ancora il controllo delle due basi militari sovrane di Akrotiri e Dhekelia. Di fatto due exclave britanniche sull’isola. «Cipro è stata divisa per via degli interessi inglesi nell’area – sostiene Levent – così come Otello e Desdemona sono stati divisi per sempre da Iago».
William Shakespeare scelse l’antica Famagosta come set per la sua tragedia della gelosia. Oggi un intero settore di quella città ricade nella buffer zone. È il quartiere turistico di Varosha, affacciato sulla costa orientale dell’isola. Qui, fino agli anni Settanta, soggiornavano star del cinema statunitense come Richard Burton e Liz Taylor. Dal 1974 l’intera area è congelata in un passato che non passa. Nient’altro che una città fantasma. Al di là della recinzione si stagliano vecchi alberghi ormai diroccati. Dopo quasi cinquant’anni, la vegetazione è tornata ad appropriarsi di strade e case. « Cancelli » esclama Barcin Bogac, indicando un’apertura nella recinzione, su cui campeggia un cartello di divieto, tatuato in turco. «È una parola che utilizziamo in tutta l’isola – spiega – sia a nord che a sud. Probabilmente è un’eredità dei veneziani». Barcin è cresciuto a pochi metri da Varosha, ma non ha mai potuto mettervi piede. Oggi si occupa di cinema e televisione, presso la Eastern Mediterranean University di Cipro nord e lavora per il dialogo. «Ci chiamano turcociprioti o greco-ciprioti – osserva – ma sono appellativi che non amiamo. Siamo ciprioti, punto e basta, anche se parliamo la lingua greca o la lingua turca. Forse dovremmo riconoscere alcune delle nostre somiglianze, piuttosto che sottolineare ad ogni costo le nostre differenze, che il più delle volte sono mutuate dall’esterno».
Sua sorella si chiama Ceren ed è tra le fondatrici del Famagusta Eco-city project. L’idea alla base del progetto è quella di recuperare la città e renderla sostenibile. Una proposta lanciata per abbattere i muri, non solo fisici, che ancora separano le due comunità. Il progetto è stato sviluppato da giovani intellettuali, provenienti dai due lati del muro. Come Nektarios Christodoulou, ricercatore in campo urbanistico, che viene dalla parte greca dell’isola. «Abbiamo somministrato centinaia di questionari – spiega – ai cittadini delle due comunità che provengono da Famagosta. E abbiamo capito che un progetto partecipato per recuperare l’area, può combattere i pregiudizi e creare una nuova socialità». Una trentina di chilometri a ovest di Famagosta, il villaggio di Pyla cade quasi per intero all’interno della buffer zone. Conta circa 1300 abitanti ed è l’unico, in tutta l’isola, dove non hanno mai smesso di convivere ciprioti di lingua greca e di lingua turca. Le due comunità coesistono da sempre in relativa tranquillità, sotto il controllo delle Nazioni unite. La torretta di sorveglianza dei caschi blu domina la piazza centrale del villaggio, su cui si affacciano il minareto della moschea e poco più in là, la chiesa cristiana ortodossa di San Giorgio. «Pyla è di per sé un laboratorio sociale – dice Baris Alibeyoglu, giovane studente che si batte per l’integrazione delle due comunità, promuovendo corsi di greco e spazi comuni – superare la reciproca diffidenza è possibile. E Pyla è il simbolo di quello che Cipro potrebbe diventare».