La tregua di una settimana tra Israele e Hamas, il rilascio di 110 ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi, l’inizio dei soccorsi alla popolazione di Gaza, sono stati una prima luce nel buio che dal 7 ottobre scorso sta inghiottendo questa regione del Medio Oriente da oltre 75 anni senza pace. Pur sapendo che non sarebbe stata la fine della guerra, come ha promesso il governo israeliano da quando ha subito l’attacco più efferato contro la popolazione civile del suo territorio, tutti coloro a cui stanno a cuore le sorti del mondo si sono comunque aggrappati ad una speranza (forse utopia?), quella che il cessate il fuoco e il lavorio diplomatico e umanitario continuassero con successo.
Non ci sono segnali positivi guardando al presente, data la determinazione di continuare a eradicare da Gaza la minaccia di Hamas e le gravi conseguenze sul piano umanitario per la popolazione civile e il timore di una nuova ondata di sfollati. Del resto, ci sono ancora 137 ostaggi nelle mani di Hamas, di cui venti donne e 117 uomini tra cui molti militari, ciò che rende ancora più difficile lo scambio con i prigionieri palestinesi, attuato finora con la proporzione di tre ogni israeliano rilasciato.
Si potrebbe inoltre dire che non ci sono state buone notizie anche guardando al passato: tutti i tentativi di accordi di pace sono infatti falliti l’uno dopo l’altro, da Oslo a Camp David fino alla “Road Map for Peace”. È facile diventare prigionieri di un cupo pessimismo di fronte a possibili soluzioni del sempiterno conflitto israelo-palestinese. Ma in realtà è intelligente credere che la pace è sempre possibile ed è in ogni caso la soluzione più umana e doverosa.
Ci sono infatti innumerevoli fattori che rendono questo conflitto diverso dagli altri, tanto da mobilitare forze opposte, se non persino nemiche, nella direzione di un accordo, per quanto arduo, da trovare. In altre parole, di fronte alla guerra Israele-Hamas si è subito vista una mobilitazione della comunità internazionale sconosciuta di fronte ad altri conflitti in giro per il mondo. Un accenno, quanto meno a quell’approccio multilaterale alle grandi questioni che interessano l’umanità evocato ieri da papa Francesco nel suo intervento alla COP 28 di Dubai. Basta pensare al ruolo che stanno giocando sia gli Stati Uniti, l’Egitto e i Paesi del Golfo, sempre più consapevoli del loro peso internazionale più forte che in passato, per frenare lo scontro in atto e per liberare gli ostaggi. Inoltre, nessun Paese dell’aera mediorientale sembra voler soffiare sul fuoco, compreso l’Iran.
La parola d’ordine, ormai passata in modo trasversale, è paradossalmente unanime: non allargare il conflitto, non farlo diventare regionale, perché ciò porterebbe quasi inevitabilmente a un conflitto globale. Con un atteggiamento della comunità internazionale che appare quindi diverso anche rispetto alla guerra in corso tra Russia e Ucraina, messa ormai, ingiustamente, in secondo piano. Per questo la seppur breve tregua di questi giorni – di cui soprattutto hanno goduto la popolazione civile di Gaza e le famiglie israeliane che hanno visto il felice e commovente ritorno a casa di decine di ostaggi – non appare a molti Stati come un semplice intervallo della guerra in corso, ma la base – anche se finora è, di fatto, uno spiraglio – per riaprire l’unica vera contesa che può portare alla pace, cioè il confronto politico. «Siamo determinati ha dichiarato il segretario di Stato americano Blinken dalla COP 28 a Dubai a fare il massimo sforzo per ricondurre ogni ostaggio alle proprie famiglie».
Ma al tempo stesso «a continuare il processo che è in corso da una settimana ». Cioè, la tregua. Inoltre, gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele di implementare urgentemente una «chiara protezione» dei civili a Gaza. Molto dipenderà dagli equilibri politici futuri in Israele e la creazione di un soggetto politico credibile unitario per i palestinesi, ma ciò che emerge in queste ore buie, dal piccolo spiraglio della breve tregua, è che ci sia un interesse convergente di molte parti verso una soluzione che apra la strada per una pace stabile, duratura e sicura. Un processo che dovrà per forza andare, ancora una volta, nella direzione di “due popoli, due Stati”. Obiettivo che tanti anni fa era più vicino, che oggi è lontano, ma che sembra il domani più realistico e auspicabile che si possa immaginare.