«La strada di quel che manca passa per quel che c’è». Non è un proverbio, o uno scioglilingua, ma una delle espressioni con le quali il Papa usa scolpire in poche parole la condizione umana. Era l’udienza generale di una settimana fa, e introducendo un nuovo ciclo di catechesi sui comandamenti Francesco ha scelto di partire dal comune «desiderio di una vita piena» concentrandosi sorprendentemente sui giovani, forse perché in loro, «affamati di vita autentica», quell’ambizione si mostra con la massima evidenza. Chi ha un desiderio smisurato di futuro è il primo a dover fare i conti con «quel che c’è», gli ingredienti della vita e non quelli dei sogni. La maturità, notava il Papa con la finezza di chi ha speso una vita a educare, arriva «quando si inizia ad accettare i propri limiti. Si diventa adulti quando ci si relativizza e si prende coscienza di "quello che manca"». È lo stesso Bergoglio, d’altra parte, che ci insegna (nella Evangelii gaudium) che «la realtà è più importante dell’idea».
Se vogliamo metterci nelle condizioni di capire il prossimo Sinodo sui giovani uscendo dall’idea che possa risolversi in un evento per specialisti, o in un concentrato di generiche aspirazioni, è indispensabile collocarsi dentro questo orizzonte, perché è solo così che si coglie il motivo per il quale il Papa ha voluto far seguire ai due Sinodi sulla famiglia una nuova assemblea di vescovi dedicata ai «giovani, la fede e il discernimento vocazionale», come suona il titolo dell’appuntamento di ottobre. Una scelta compatta e coerente, che è di fatto un bagno di realtà per la Chiesa, e un invito a fare altrettanto lanciato alla cultura e alla politica, all’economia, alla comunicazione, alla scuola, a chi tiene a qualunque titolo in mano in mano i fili del mondo e annaffia il giardino delle nuove generazioni. Perché dare corda ai giovani, capirli, renderli parte attiva del futuro che è di tutti non è faccenda che riguarda solo la Chiesa ma anche chi pensa di aver risolto la "questione giovanile" riducendola alle categorie del consenso e del consumo, nella convinzione che i ragazzi siano nient’altro che oggetti e destinatari di messaggi elaborati da altri.
Lo «Strumento di lavoro» che la segreteria del Sinodo ha diffuso ieri rovescia questa prospettiva economicista a partire dall’impulso di Francesco: i giovani vanno cercati nel mondo che abitano, accolti con i codici che usano, seguiti nei percorsi che sperimentano, per poi poterli accompagnare senza limitarsi a volerli guidare, anche con le migliori intenzioni. Alla Chiesa certamente costa farlo, ma in questo percorso ha già fatto molta strada e si è guadagnata sul campo la credibilità per incoraggiare tutti a seguirla.
Il paradigma che il Sinodo promette di introdurre nel mondo (sul serio, e non per modo di dire) è infatti quello dell’ascolto, del «guardare i giovani nelle condizioni reali in cui si trovano», come si legge nell’Instrumentum laboris, qualunque esse siano. Cosa c’è, per aprirsi a cosa manca. Nei 214 paragrafi (in 67 pagine) del documento vaticano c’è il primo frutto di questo metodo di lavoro che diventa anche scelta educativa, espressione di quello stile sinodale al quale Francesco sta educando la Chiesa. Se si vuole incidere sul mondo (e l’evangelizzazione cos’altro è se non questo?), il mondo va ascoltato sino in fondo, in ogni sua espressione. Sì, anche quelle più apparentemente lontane, difficili, sgradite, fino ad arrivare a chi non vuole proprio saperne, o si sente escluso, o crede che la sua fatica di vivere (figuriamoci di credere...) o la propria condizione esistenziale lo rendano irrimediabilmente estraneo alla comunità credente.
La fede, però, non è un possesso né un privilegio: è dono e responsabilità, che consegna a chi ne è beneficiato gli strumenti per farsi vicino a chiunque, alla condizione umana in quanto tale, e a quella giovanile oggi in particolare perché capace di esprimere scelte e modi di vivere più che disparati, e mai con una contraddittorietà simile. Se una novità c’è nella rotta che la Chiesa ha preso con il Sinodo sulla condizione giovanile è certo anche quella che passa per le cinque righe dedicate al n.197 ai «giovani Lgbt» – oggetto dell’attenzione di media in permanente caccia di curiosità – ma solo perché dentro quella infinita sorpresa che va sotto il nome di realtà. E dando voce ai giovani la Chiesa le fa spazio, disponendosi a imparare cosa sta inventandosi il Padre. Perché – come ha detto Francesco domenica all’Angelus – il Regno di Dio «nel suo crescere e germogliare dentro la storia non dipende tanto dall’opera dell’uomo, ma è soprattutto espressione della potenza e della bontà di Dio». Che opera in tutti come il seme che cresce «indipendentemente dalla cura del contadino», «per forza propria e secondo criteri umanamente non decifrabili». Parlano i giovani, a modo loro, ma se li ascoltiamo davvero forse sentiremo l’accento del Signore.