mercoledì 29 maggio 2024
Malgrado sia teoricamente tra le più avanzate, la legge italiana sull'ordinamento penitenziaria trova ostacoli alla sua applicazione in strutture e istituzioni carenti. E così il carcare non riabilita
Due magistrati alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario

Due magistrati alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario - Ansa

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Sono assolutamente d’accordo, e per taluni forse anche sorprendentemente d’accordo, con l’iniziativa dell’associazione Sciascia-Tortora affinché i neo-magistrati facciano una significativa esperienza professionale all’interno delle carceri. Lo spirito di tale iniziativa, tuttavia, non deve avere il sapore della aprioristica condanna morale della casta magistratuale sordamente arroccata sulla propria privilegiata torre, deve invece mirare a far prendere coscienza ai neo-magistrati di cos’è in concreto la pena che essi infliggeranno e se l’esecuzione di tale pena sarà in linea con il dettato costituzionale e con i principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu).

Una premessa non può essere però omessa: la nostra legge sull’ordinamento penitenziario, specie dopo la riforma Cartabia è, in linea teorica, una delle più avanzate al mondo, ma le istituzioni e le strutture che dovrebbero garantirne l’applicazione sono oggettivamente carenti. Talvolta in gravissimo ritardo come nel settore della giustizia riparativa, dove si registrano inefficienze nell’avvio dei Centri e delle Conferenze locali. Una prima generale considerazione sulla pena va inoltre formulata, essa infatti deve tendere al raggiungimento di due distinti obiettivi: uno volto alla punizione, repressione e prevenzione dei reati, l’altro volto alla rieducazione e riabilitazione del reo. A ben guardare, tuttavia, il tema della prevenzione è strettamente legato al tema della riabilitazione, perché solo un reo che ha preso coscienza della sua condotta deviante attraverso un percorso risocializzante sarà al riparo da ricadute e recidive.

Sul tema della riabilitazione il nostro Paese presenta tuttavia ritardi d’ordine culturale, strutturale e organizzativo. Sul piano culturale, perché occorre comprendere che punire senza risocializzare non produce alcun effetto sull’ordine e la sicurezza pubblica.
Sul piano strutturale, perché le nostre carceri sono per buona parte invivibili, senza adeguati servizi igienici, senza idonei spazi ricreativi, privi di una reale e costante assistenza sanitaria. Sul piano della organizzazione, perché, oltre ai carenti servizi di risocializzazione interni al carcere, occorre registrare una inadeguata relazione con le strutture esterne del Terzo settore abilitate a reinserire il condannato nella società civile.

Costruire nuove carceri, alzare nuovi muri, senza completare gli organici della polizia penitenziaria, dei direttori, degli assistenti sociali e degli educatori non permette di realizzare alcun valido obiettivo. Sotto altro aspetto, occorre garantire all’interno degli istituti penitenziari una assistenza medica di base continuativa e porre una maggiore e più intensa attenzione al sostegno psicologico e alle cure psichiatriche del detenuto. È noto a tutti, infatti, il crescente dramma dei suicidi in carcere, arrivati quest’anno alla media di uno ogni tre giorni e mezzo. All’interno del disagio psichico, in particolare, grande attenzione deve essere dedicata al recupero di quanti sono affetti da tossico e alcool dipendenze. Per il superamento delle indubbie criticità della sanità carceraria è necessaria una interlocuzione fra l’amministrazione penitenziaria e le Regioni, perché la medicina del territorio deve essere anche la medicina degli istituti di pena, senza distinzione fra chi sta fuori e chi sta dentro le mura.

Esiste infine il grande ed irrisolto problema del lavoro: quasi assente quello all’interno di troppi istituti, fragile e precario quello all’esterno. Puntare alla creazione di una rete di istruttori, di tecnici e di maestri artigiani e, al contempo, realizzare officine e laboratori interni, ovvero rilanciare le attività agricole e casearie, potrebbe essere un buon punto di partenza per offrire una successiva possibilità di lavoro esterno al condannato. Il lavoro esterno, stimolato da aiuti ed incentivi pubblici, deve essere qualificante, incentivante, equamente retribuito e tendenzialmente stabile, non già un espediente per reclutare mano d'opera di basso profilo a tempo determinato.

Infine, occorre garantire un solido aiuto a quanti si impegnano nel Terzo settore, magari stornando a loro favore i profitti illeciti sottratti al crimine organizzato, offrendo vigore a quelle necessarie sinergie fra pubblico e privato, permettendo al settore pubblico di scaricare compiti non in grado di assolvere da solo. Qualsiasi soluzione del problema carcerario presuppone tuttavia la conoscenza del fenomeno dall’interno, in tal senso va salutata positivamente l’iniziativa dell’associazione Sciascia-Tortora, perché la popolazione carceraria ha composizione eterogenea e bisogni diversificati. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, d’altra parte, non può abdicare al proprio ruolo di controllore, ancorché tale ruolo vada interpretato nel rigoroso rispetto della legge e della persona ed evitare il ripetersi di fenomeni come quelli registrati, da ultimi, al Beccaria di Milano. Doverosa quindi l’attenzione di tutti gli operatori della giustizia al mondo delle carceri, nessuno escluso, perché da luoghi di gratuita sofferenza si trasformino in luoghi di effettivo recupero.

Procuratore generale di Cagliari



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