L’abbraccio fra la presidente uscente Michelle Bachelet e Sebastian Piñera (Ansa)
Il ballottaggio delle elezioni presidenziali, svoltosi domenica 17 dicembre 2017 in Cile, ha confermato le previsioni che erano nell’aria da varie settimane, appena attenuate dai sondaggi degli ultimi giorni. Il leader della coalizione Chile Vamos, Sebastian Piñera, già presidente dal 2010 al 2014, ha superato nettamente – col 54,5% dei voti contro il 45.4% – Alejandro Guiller, il candidato della coalizione di centrosinistra Nueva Mayoría. Di conseguenza, per la seconda volta dalla fine del regime autoritario di Augusto Pinochet (1973-90), il centro-sinistra, che ha dominato gli scorsi tre decenni, dovrà lasciare fra pochi mesi la guida del Paese. Il risultato elettorale suggerisce quattro considerazioni, le quali riguardano ovviamente il Cile, ma hanno un rilievo più ampio per lo scenario latino-americano, considerato che, almeno nell’ultimo mezzo secolo, questo Paese relativamente marginale ha influito sull’evoluzione del subcontinente in maniera assai più significativa del suo rilievo geografico e demografico.
Le elezioni del 2017 sono state, anzitutto, il risultato di un giudizio negativo sul governo uscente, guidato dal 2014 da Michelle Bachelet (che già era stata presidente del Cile dal 2006 al 2010). Un governo segnato da alcuni scandali (che hanno coinvolto lo stesso figlio della presidente) e da un riformismo radicale, sia in campo istituzionale (con la reintroduzione del sistema proporzionale per l’elezione del Congresso, in luogo dal singolare sistema binominale lasciato in eredità dalla dittatura pinochettista e che malgrado tutto aveva contribuito a stabilizzare il bipolarismo di questi ultimi decenni e con un progetto di redazione di una nuova Costituzione, rimasto però a metà strada), sia in campo eticosociale, con l’approvazione di una legge che permette l’aborto in tre circostanze estreme e di un disegno di legge sul matrimonio omosessuale. Secondo alcuni commentatori, come Max Colodro su 'La Tercera', la presidente Bachelet ha proposto una visione stereotipata del Cile, che ha finito per dividere la sua stessa coalizione e per consegnare il Paese alla destra, esattamente come era accaduto otto anni fa, alla fine della sua prima presidenza.
Ma il risultato elettorale di domenica è anche il frutto della divisione interna al centrosinistra. La 'grande coalizione' formatasi nel 1988 per contrastare il plebiscito sulla conferma di Pinochet al potere - e che originariamente includeva la Democrazia cristiana, il Partito socialista ed alcune forze minori e cui in un secondo tempo si erano aggiunti i comunisti - ha visto restringersi la sua base elettorale sia all’estrema sinistra che al centro. Al primo turno delle presidenziali, la giornalista Beatriz Sánchez ha portato la coalizione di sinistra radicale Frente Amplio (una sorta di movimentismo nato dalle proteste studentesche del 2013 ed ispirato allo spagnolo Podemos, con leader attorno ai trent’anni e un’analoga furia iconoclasta verso la transizione graduale alla democrazia realizzatasi nel loro Paese, come in Spagna) a un sorprendente 20% dei voti, non troppo distante dal candidato della coalizione di sinistra Alejandro Guiller (che si era fermato al 22,6%). Quest’ultimo, dal canto suo, ha offerto una leadership debole, che non ha convinto neppure al centro, ove la democristiana di sinistra Carolina Goic ha tentato senza successo un rilancio della proposta Dc in chiave autonoma dalla coalizione di cui è stata parte dal 1990 (esprimendo fra l’altro i primi due presidenti della democrazia, Patricio Aylwin ed Eduardo Frei Ruiz-Tagle).
È vero che nel suo insieme la sinistra poteva sembrare maggioritaria (e in effetti lo sarà nel Congresso, eletto il 19 novembre scorso, contestualmente al primo turno delle presidenziali), ma la sua eterogeneità le è stata fatale e alla prova del ballottaggio non pochi voti espressi per alcuni suoi candidati sono passati al centro-destra di Piñera. Il successo del candidato di centro-destra è stato molto più largo di quello ottenuto otto anni fa contro l’ex presidente dc Frei. Piñera ha dato l’impressione di poter federare un centro-destra molto più complesso che in passato e che comprende e fonde al suo interno elementi populisti (raccolti al primo turno attorno alla candidatura di Felipe Antonio Kast, proveniente dalla Udi, la formazione più vicina all’eredità di Pinochet) con elementi di liberal-radicalismo (il nuovo partito Evópoli di Felipe Kast) e con i due partiti storici, Renovación Nacional dello stesso Piñera e il blocco centrale della Udi, che lo appoggiava. Piñera ha impresso a questa coalizione un marchio liberale moderato, in sintonia con leadership come quelle di Macri in Argentina e di Kuczynski in Perù, che lascia intravedere una tendenza nuova in America Latina, ove spesso la destra, così come la sinistra, è stata dominata da posizioni populiste.
Infine, al di là dei risultati, le elezioni del 2017 sembrano confermare il buono stato di salute della democrazia cilena, che – a quasi trent’anni dal plebiscito che avviò a conclusione una delle dittature militari più (tristemente) famose dell’America Latina – conferma le valutazioni che la collocano al vertice delle graduatorie sulla qualità della democrazia a sud del Rio Grande (assieme a Costarica e Uruguay). Malgrado gli episodi che hanno coinvolto la stessa famiglia della presidente Bachelet, il Cile sembra essere l’unico Paese latino-americano immune dal gigantesco scandalo di corruzione scoppiato attorno alla impresa brasiliana di infrastrutture Odebrecht, che ha di recente travolto il vicepresidente dell’Ecuador Glas e che potrebbe a giorni condurre all’impeachment del presidente peruviano Kuczynski, oltre a coinvolgere quasi ogni forza organizzata, inclusa persino l’ex guerriglia colombiana delle Farc. E mentre proprio in questi giorni un altro Paese latino – l’Honduras – attraversa una grave crisi nella gestione delle elezioni presidenziali, la qualità delle procedure elettorali cilene e la cultura civile che la supporta sono sembrate da primo mondo, come ormai quasi ogni aspetto delle istituzioni e della società di questo Stato australe.
Un indicatore banale della qualità della democrazia cilena si è visto, del resto, la stessa notte delle elezioni: quando il risultato si è delineato il candidato della Nueva Mayoría Alejandro Guiller si è recato personalmente nel quartier generale del presidente eletto per riconoscere il risultato e congratularsi lealmente con il vincitore, proprio come fece, diciassette anni fa, il candidato dell’Udi Joaquín Lavín, al termine del primo ballottaggio presidenziale della storia cilena, che aveva portato alla presidenza il socialista Ricardo Lagos. Una democrazia di qualità non si vede solo dai segni, ma anche da questi. E il Cile che torna a scegliere Piñera, al di là del risultato, conferma di essere il Paese più avanzato dell’America Latina.