Caro direttore,
la Direttiva sul salario minimo è ormai un fatto. Un fatto al quale ha concorso attivamente il nostro Paese. Adesso sono più chiari i confini entro i quali il dialogo sociale può muoversi per affrontare il tema dei salari e quello del lavoro povero. E credo che sia un errore contrapporre la dimensione fiscale all’esigenza di avere minimi salariali adeguati e una contrattazione tempestiva ed efficace. Il cuneo fiscale va ridotto, ma questo non risolverà né il problema dell’andamento tendenziale dei salari, che fa del-l’Italia un’anomalia a livello europeo, né quello del lavoro povero.
La Francia e la Germania hanno una pressione fiscale sul lavoro più alta della nostra eppure, nei due Paesi, i salari sono cresciuti di circa un terzo in trent’anni. Nel nostro Paese sono scesi del 2,9%, nonostante alcune contenute riduzioni del cuneo. In questi due anni, poi, sono stati applicati significativi sgravi contributivi legati ad alcuni profili dei lavoratori, donne, giovani, inoccupati del Mezzogiorno.
Nessuna di queste misure ha stimolato una crescita delle retribuzioni e anzi, nel Sud, i salari sono scesi più della media nazionale. C’è una massa crescente e amorfa di sigle sindacali che preme con forza lungo i confini delle relazioni industriali fisiologiche, condizionandole, con effetti potenzialmente devastanti sulla tenuta della protezione giuridica dei lavoratori. Il numero dei Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) è cresciuto del 170% in circa un decennio.
I primi 54 Ccnl maggiormente applicati, però, coprono il 75% dei lavoratori mentre i restanti 879 interessano il 25%. Questo dato ci dice due cose, che l’area dei lavoratori interessati è quasi sovrapponibile a quella del cosiddetto lavoro povero e di quello di poco sopra la soglia della povertà, al contempo, però, che siamo ancora in tempo per intervenire prima che si produca una modifica strutturale di tutto il mercato del lavoro.
L’assenza di regole precise sulla rappresentatività e la contrattazione può indurre sempre più a 'cedere' alla tentazione di applicare 'cattivi contratti'. A ciò si aggiunga un ritardo spesso strutturale nel rinnovo, che soprattutto nei comparti più esposti al rischio di lavoro povero (servizi, commercio, turismo) condannano i lavoratori a una ulteriore e ingiustificata penalizzazione. L’attuale drammatica situazione del conflitto in Ucraina, la crisi dei prezzi dell’energia e delle materie prime, incide sul sistema aggravando la piaga della povertà lavorativa: un numero sempre più elevato di persone vive in condizioni di indigenza nonostante abbia un lavoro.
Secondo i dati del 2020 i lavoratori poveri in Italia sono 3 milioni, ossia il 13% degli occupati. Nel Mezzogiorno rappresentano circa il 20%. Proprio muovendo dal quadro che ho descritto, ho avviato un confronto con le parti sociali per valutare alcuni possibili interventi. Intendo per interventi possibili quelli in grado di raccogliere il consenso più largo tra le parti sociali e le forze politiche. Il fattore tempo, infatti, non è una variabile secondaria.
Una auspicabile soluzione organica che giunga tra molti mesi rischia di abbandonare altre fasce del lavoro con bassi salari all’erosione dell’inflazione. Sul tavolo c’è una norma che attui l’art. 36, primo comma, della Costituzione, in tema di retribuzione proporzionata e sufficiente. Secondo questa ipotesi, la retribuzione può essere individuata nel trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal Ccnl stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale.
Si tratta di una proposta che assume e recepisce l’orientamento prevalente nella giurisprudenza, anche costituzionale e che prende spunto dal Patto della Fabbrica del 2018. È una proposta che fa leva sui risultati migliori della contrattazione. Un vantaggio di questa ipotesi è quella di sospendere la dialettica, presente anche nel movimento sindacale, tra chi ritiene necessario un minimo salariale legale e chi lo ostacola vedendo in esso un ulteriore colpo alla contrattazione.
Un accordo su questo, poi, può essere un passo verso una disciplina più organica che nasca da ulteriori accordi in grado di definire le regole per misurare la rappresentatività dei soggetti sociali e la modalità di rinnovo dei contratti, alla luce dell’attuale dinamica inflattiva, definendo anche regole adeguate a stimolare la tempestività dei rinnovi.
Legare la riduzione del cuneo fiscale a questa pluralità di interventi significa garantire da un lato che l’alleggerimento fiscale non si risolva in una misura isolata che rischia di essere progressivamente cancellata dall’andamento negativo dei salari, e dall’altro offrire strumenti alternativi agli adeguamenti automatici che, come abbiamo sperimentato in passato, rischiano di produrre effetti inflattivi fuori controllo con pesanti conseguenze nelle fasce più basse di reddito.
Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali