La morsa si è stretta attorno a Mosul, con una rapidità che non era data per scontata agli inizi delle operazioni militari. Ma il difficile comincia ora, dato che combattere per i vicoli della città vecchia e per le strade della città vera e propria significa dovere rinunciare a buona parte del vantaggio numerico, tecnologico e militare delle forze irachene e delle milizie che le sostengono. A meno di colpire pesantemente tanto le forze jihadiste quanto la popolazione civile che viene usata come scudo. Le milizie paramilitari sciite, per di più, stanno cercando di tagliare ogni possibile via di fuga verso la Siria: una mossa tesa a massimizzare le perdite fra gli jihadisti, evitando che possano così sfuggire all’assedio, ma ha il corollario di costringerli a combattere dentro la città, rendendo la riconquista più cruenta. Tanto più se saranno confermate le voci diffuse da fonti del governo regionale curdo (Krg), secondo le quali lo stesso "califfo" al-Baghdadi sarebbe asserragliato dentro Mosul. Anche se in molti dubitano della loro veridicità: l’attacco alla città era atteso da tempo e per il capo del Daesh sarebbe stato illogico non spostarsi verso i territori che l’organizzazione terroristica controlla in Siria.Lunga o breve che sia la battaglia, tuttavia è evidente come il fattore cruciale – e qui lo si sottolinea da tempo – sia cosa fare di Mosul dopo la riconquista. Il governo di Baghdad deve a ogni costo evitare che le rivalità fra curdi e arabi si riverberino sui futuri assetti della città e del suo territorio. E’ inoltre fondamentale che vi sia un sostegno rapido da parte della comunità internazionale per la sua ricostruzione e per permettere a tutte le comunità e a tutte le minoranze di ritornare e di poter pensare a un nuovo inizio, che non può essere quello di una stentata sopravvivenza. Il che significa sostegno politico, ma soprattutto finanziario. In particolare per la comunità cristiana e yazida, le più colpite durante il cupo dominio jihadista.Ma la battaglia per Mosul si ricollega ineludibilmente anche alla guerra in Siria: schiacciare completamente le milizie di Daesh è una cosa; sconfiggerle e lasciarle rifluire verso i "suoi" territori siriani, un’altra. Non a caso, Washington è stata accusata di essere favorevole a una campagna militare "leggera" sul suolo iracheno, per permettere il trasferimento di guerriglieri verso Raqqa, rendendo così più difficile la campagna per la sua riconquista da parte delle truppe di Damasco e dei suoi alleati russi e iraniani. Accusa inverosimile, dato che il Pentagono ha annunciato l’avvio a breve di un attacco da parte delle forze arabo-sunnite e curde. Ma un’accusa che evidenzia la difficoltà in cui versano gli Stati Uniti, privati di una vera strategia dal successo dell’interventismo militare di Putin. Se Assad dovesse riuscire a conquistare stabilmente Aleppo e avesse poi la forza di marciare su Raqqa, la guerra per il regime sarebbe di fatto vinta. E diventerebbe molto più difficile ogni ipotesi di accordo politico per un cambio di regime.L’unica alternativa credibile a una vittoria alawita-russo-iraniana a Raqqa è che le milizie legate all’Occidente si muovano per prime. Difficile immaginarlo, visti i modesti risultati fin qui ottenuti dalle forze arabo-sunnite. I soli in grado di garantire risultati sarebbero probabilmente i peshmerga curdi. Permettere a loro di marciare sulla capitale del califfato jihadista avrebbe effetti regionali dirompenti: non solo i curdi occuperebbero una zona incontestabilmente araba sunnita, ma con tutta probabilità causerebbero la reazione della Turchia, che guarda con estremo sospetto alle mosse curde e che non tollera i loro sconfinamenti.Già oggi Ankara, Paese della Nato, si è avvicinata troppo a Mosca. L’Occidente non ha in alcun modo interesse ad accentuare questo suo "smottamento" verso la Russia, con strategie pasticciate nel Levante. Prima ancora di riconquistare i territori jihadisti dovremmo chiarirci le idee su cosa fare dopo la conquista. Ma questa chiarezza ancora non si vede, né a Raqqa né a Mosul. Vincere si deve, ma non basta. Così men che meno.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: