Populismi di diversa matrice oggi continuano ad alimentare disprezzo e a trovare capri espiatori Ieri l’urlo che riempiva società pervase da ideologie totalitarie nazional-razziste era “Via gli ebrei”, oggi è “Via i migranti”!
Nella nostra società di massa manipolata da poteri forti e da logiche di nuovo rischiosamente nazional-razziste, la categoria del “noi”, che dice comunione, viene deformata e resa divisiva: ci sono i “nostri” e ci sono gli “altri” che, a motivo di paure alimentate ad arte, diventano subito i “nemici”. E così il mondo viene diviso in “razze” superiori e inferiori. Con questi schemi volgari, nazismo, fascismo e stalinismo hanno reso il Novecento il “secolo del male”. Oggi, populismi di diversa matrice continuano ad alimentare odio e a trovare capri espiatori. C’è di più: le “politiche dell’antipolitica” – che hanno giocato e giocano con il disagio, cresciuto in tempi di crisi – hanno diseducato interi popoli e intere generazioni, facendo avanzare il deserto dentro il cuore dell’uomo. Hanno gettato l’umanità in una guerra devastante, ieri totale, oggi “infinita”. Per non parlare dei genocidi condotti con un cinismo che ancora oggi lascia attoniti, se ci si pensa con cuore sensibile e intelligenza lucida. Come è stato possibile? Dove era la gente comune quando avvenivano le retate?
Non si vedevano i vagoni piombati con “merce” umana? Da qualche anno, queste domande risuonano mentre si continua a recuperare la memoria della Shoah, perché mai più accadano crimini così efferati contro l’umanità. Ora, però, sappiamo che non sarebbe bastato (e che non basta) “guardare” per restare uomini che reagiscono, difendono, condividono, pensano alla comune umanità. Oggi lo sappiamo meglio, perché ci arrivano in presa diretta le immagini dei barconi e dei morti che annegano e diventano pezzi di carne in sacchi neri, come accaduto a Lampedusa o a Pozzallo, o l’immagine della mamma che, lungo i confini dei Balcani, muore assiderata perché con le sue calze aveva cercato di scaldare i figli. Mentre si mette in mare per salvare vite, da “Mediterranea” giunge un appello che ci chiede di rinnovare quella liberazione degli ebrei del 27 gennaio di settantasette anni fa nella liberazione dei migranti, non solo dalle acque minacciose del mare, ma anche dalle prigioni libiche – che “Avvenire” ha raccontato anche con immagini toccanti e strazianti – e da retate volte a eliminare quei migranti che cercano di diventare protagonisti del loro riscatto: «Non sappiamo come aiutare i fratelli di Gesù ad andare in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode – scrive don Mattia Ferrari - Però dobbiamo salvarli: se le milizie li troveranno, molto probabilmente li giustizieranno, come avviene spesso ai migranti rivoltosi in Libia». Oggi vengono denunciate da gente coraggiosa (volontari di Ong, missionari, giornalisti, migranti che riescono a raccontarci cosa hanno visto) le violenze in nuovi campi di concentramento come quelli della Libia, dentro oscure manovre con la complicità di poteri economici e politici forti, o campi di raccolta, come quelli di Lesbo dove si vive di stenti. Oggi sappiamo anche che il lavoro forzato si rinnova nel nostro Paese nelle piaghe del caporalato che usa i migranti come merce a basso costo, migranti che si riparano poi sotto lamiere che diventano “forni” che evocano quelli dei campi di concentramento, roventi in estate e incapaci di riparare d’inverno. Oggi non solo sappiamo di tanta sofferenza, ma anche ci viene chiarito come tutto questo sia disumano. Ce lo dice con forza e tenacia papa Francesco che, nella “Fratelli tutti”, spiega anche come si crei un meccanismo perverso che ci spinge a “guardare” senza “vedere” e senza decidere quei gesti necessari per restare umani: «I “briganti della strada” hanno di solito come segreti alleati quelli che passano per la strada “passando dall’altra parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse [...] In tal modo, si alimenta il disincanto e la mancanza di speranza, e ciò non incoraggia uno spirito di solidarietà e generosità» (FT,75). Non basta “guardare”, occorre vedere e occorre agire! Solo così la memoria diventa memoriale, che ci interpella nell’oggi della storia e rende onore alle vittime. E ci sono dati tanti esempi in coloro che si espongono in prima persona.
E in questi giorni ha parlato al cuore di molti la testimonianza e lo stile del presidente del Parlamento europeo Davide Maria Sassoli che, in uno dei suoi ultimi messaggi, quello per il Natale, ripreso dal cardinale Zuppi e dalla figlia al funerale, diceva con estrema chiarezza: «Abbiamo visto nuovi muri, i nostri confini in alcuni casi sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità. Muri eretti contro persone che chiedono riparo dal freddo, dalla fame, dalla guerra, dalla povertà [...] Il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo tutte le ingiustizie». In una vignetta pubblicata dopo i funerali di Sassoli si vede una figura che, girando le spalle alla realtà concreta di un migrante mentre affonda, dice: «Continueremo sulle orme di David Sassoli », quando il migrante invoca e grida «Voltati». Ecco, in questo imperativo categorico, in questo “voltarsi” c’è la via per non continuare con emozioni e parole astratte, ma per aprire – nella cura che accoglie, protegge, promuove, integra, protegge (cfr. FT,129) – cammini nuovi in cui il “noi” viene ritrovato, non solo inclusivo e concreto, ma anche capace di dare pienezza e verità alla nostra vita. Scrive ancora il Papa: «Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prenderci cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune » (FT,17).
Nel “noi” che diventiamo accogliendo il migrante, cifra dell’umanità tutta in cammino, riscopriamo la comune e originaria co-appartenenza che ci fa insieme uomini. “Fratelli tutti”, l’appello che papa Francesco ci dona, non è un appello emotivo o solo etico, ma teologale: è verità e sostanza della vita, è l’unico futuro degno dell’umanità, coerente con la conoscenza del volto vero di Dio, Padre che tutti ci abbraccia. Il filo della memoria lega allora i giusti di ieri, con i coraggiosi di oggi, e invoca dalla Chiesa anzitutto una presenza che aiuti, non solo a “guardare” ma a “vedere” («Dacci occhi per vedere», invochiamo nella preghiera eucaristica!) e così, come amava dire don Tonino Bello, «organizzare la speranza e forzare l’aurora».
Vescovo di Noto