Molti genitori mi chiedono come devono comportarsi coi loro figli quando li vedono sempre collegati in Rete. Hanno paura che si trasformino in Hikikomori, i ragazzi chiusi in camera giorno e notte da soli di fronte al computer: tragedie vere e proprie sulle quali non si può scherzare. Forse anche per reagire a questi casi estremi stanno fiorendo esperimenti di sconnessioni temporali che alcuni giudicano necessari, altri reputano dannosi. Il tema è più complesso di quel che appare: bastasse un precetto per capire cosa fare, sarebbe tutto semplice. Ecco perché a mio avviso la questione non si può ridurre al dilemma: cellulare sì, cellulare no; andare sui monti o non togliersi mai gli auricolari. Dipende dai casi, dai contesti, dalle situazioni. Dalle fasi dell’esistenza. Dai caratteri, dalle sensibilità, dai momenti della vita, dagli ambienti. Dalle storie che abbiamo alle spalle.
Certo non dovremmo mai disertare la relazione personale, l’incontro diretto. Se non tocchiamo con mano, se non andiamo all’appuntamento, se rinunciamo alla verifica concreta, finiremo per relegare noi stessi e gli altri a una dimensione virtuale. È tuttavia indubbio che credere di trovare la felicità limitandoci a camminare a piedi nudi sui prati, liberi dalle mail che quotidianamente ci assediano, potrebbe risultare altrettanto illusorio.
La rivoluzione digitale ha cambiato il pensiero della realtà. Cose grosse che chiamano in causa il modo di leggere, di percepire il paesaggio, di concepire gli affetti. Troppo facile credere di cavarsela lasciando a casa lo smartphone. Questo non vuol dire che il tempo della disconnessione non possa risultare utile: ad esempio, sarebbe simpatico e istruttivo mostrare a un bambino cresciuto sugli schermi com’era la vita al tempo in cui il telefono restava attaccato alla parete, non te lo portavi dietro ed esistevano apposite cabine sulla strada dove si poteva chiamare chiunque sì, a patto di usare speciali gettoni color rame spezzati da una linea in mezzo.
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Che mondo, ragazzi! Non saremo più gli stessi di un tempo, d’accordo, ma non rinunceremo al desiderio di essere migliori, qui e ora, non chissà quando e dove. Prendiamo gli strumenti che abbiamo a disposizione, apprezziamoli ma forgiamoli secondo i nostri valori. Non diventiamo schiavi del nuovo sistema, proviamo a dominarlo, senza immaginare che ciò possa davvero accadere. Ripristiniamo le gerarchie culturali nel grande mare informatico e, soprattutto, rifondiamo l’esperienza. L’uso delle nuove tecnologie può essere rischioso in due sensi: credere che l’informazione coincida con la conoscenza e pensare alla libertà come al superamento del limite. Al contrario, se vuoi approfondire un argomento devi impegnarti e studiare, verificando le fonti senza imboccare troppe scorciatoie: in questo senso nulla è cambiato. Inoltre, se commetti un danno, devi risarcire la vittima. Tirare il sasso e nascondere la mano, lo sappiamo, è la moda che oggi i social consentono di praticare. Si tratta di un fondale fangoso in cui annaspano in tanti.
Tutto ciò andrebbe spiegato ai più giovani non in modo teorico e neppure sperimentale. Con loro dovremmo fare dei patti, stabilendo insieme le condizioni per rispettarli. Ciò che conta nel rapporto educativo è l’ingranaggio scoperto, non il trucco o, peggio ancora, l’inganno, anche se fosse a fin di bene.
Connessi o sconnessi: magari fosse soltanto questo il problema! Dobbiamo capire prima cosa significa vivere con consapevolezza questa nostra finitudine, l’unica che abbiamo.