Un 'sì' dei ministri risicato come la sua esigua maggioranza parlamentare e ricavato dopo un pomeriggio di passione con il governo in seduta a oltranza al numero 10 di Downing Street consente a Theresa May di presentare oggi alla Camera dei Comuni la tormentata bozza di intesa con l’Unione Europea per un divorzio morbido, la cosiddetta soft-Brexit.
Un percorso irto di veleni e di insidie, per un accordo che qualcuno già definito «Turkey minus» (alludendo, ma al ribasso, all’accordo doganale in vigore fra Ankara e l’Unione Europea) e qualcun altro «swimming pool» (domandandosi sarcasticamente se il governo saprà restare a galla o viceversa andrà a fondo sulla questione del confine aperto fra le due Irlande); ma più azzeccato forse è stato quel «judgement day» (Giorno del Giudizio) con cui la stampa ha appropriatamente battezzato la giornata di ieri. Il governo dunque approva («Una decisione difficile, sofferta», precisa la May), inghiottendo il boccone amarognolo di quella più che un’intesa è un mosaico di accomodamenti ancora tutti da definire.
Una bozza che – sono parole della premier – «avvicina significativamente il Regno Unito a ciò per cui il popolo ha votato nel referendum del 2016, ossia la restituzione del controllo sui propri confini, le proprie leggi, il proprio denaro». Nessuna meraviglia di fronte alle aspre critiche sia dei campioni del leave (come i dimissionari Boris Johnson e Jacokb Rees-Moog), sia dei laburisti di Jeremy Corbyn (chiedevano un secondo referendum, negato dalla May), sia – e questa è un po’ una novità – anche dei membri europeisti del partito conservatore, come Jo Johnson, fratello minore del sulfureo Boris. A ciò si aggiungeva il Dup, il partito unionista nord-irlandese (i suoi voti tengono in vita il governo dopo la disastrosa elezione anticipata in cui la premier s’illudeva di rafforzare il governo ed invece ha perduto la maggioranza alla Camera dei Comuni), il cui monito alla May era più che esplicito: se avallasse in toto il piano concordato con Bruxelles, perderà la fiducia del suo alleato.
Un disastro, stando alle premesse. Comprendere a fondo le cinquecento pagine della bozza di accordo è impresa ardua non solo per noi, ma per i negoziatori stessi. Limitiamoci ai fatti certi: a 135 giorni dal congedo ufficiale del Regno Unito dall’Europa ci sono solo due vie possibili, quella di un accordo conciliante fra Londra e Bruxelles e quella di un no-deal, il temuto disaccordo totale che in qualche modo affascina i giacobini del leave (loro la chiamano compiaciuti «hard Brexit» ) ma che garantisce il caos nei porti e alle dogane, nonché pesanti ripercussione sul commercio e sul transito delle merci.
Per non dire della frontiera irlandese: l’Irlanda del Nord continuerebbe a far parte del mercato unico così come la Gran Bretagna lo sarebbe nell’unione doganale, per lo meno fino a quando verrà trovata una soluzione che impedisca di ripristinare una frontiera fra Belfast e Dublino. Il Giorno del Giudizio tuttavia non si è concluso ieri sera. I falchi della Brexit non si arrendono e tramano per far cadere la premier sfiduciandola come leader dei tories: bastano com’è noto le firme di 48 parlamentari per chiedere la sfiducia e la conta nel partito e i numeri, per lo meno teoricamente, ci sono tutti. Cadde così nel 1990 Margaret Thatcher, messa in minoranza dai suoi stessi compagni di partito. In questa lotta fratricida che ricorda da vicino un dramma del teatro elisabettiano, ove alla fine sul palcoscenico non restano che cadaveri, spicca la voce di Boris Johnson. Dimettendosi ha detto alla May che con il suo paper plan il Regno Unito rischia di diventare «una colonia d’Europa».
Eppure tutti a Londra sanno che un no-deal, un’uscita traumatica del Regno Unito non potrebbe giovare a nessuno: alla sterlina, ai mercati e soprattutto ai cittadini (il Fondo Monetario Internazionale stima un calo del Pil dell’ordine dell’8%). Se si rivotasse oggi probabilmente il verdetto della Brexit sarebbe rovesciato. Ma questo è il senno di poi. Ora, a decidere il futuro del Regno Unito è solo un braccio di ferro fra consorterie politiche poco inclini al compromesso. A gongolare, se tutto andrà per il verso peggiore, saranno solo i due giganti silenti, Mosca e Washington: per i quali l’Europa, la sua forza originaria, i traguardi che fino a poco tempo fa parevano possibili, sono solo un impiccio. Ma, nel caso, ce ne si accorgerà troppo in ritardo.