Chiunque abbia vissuto a L’Aquila prima del sisma e in questi ultimi anni vi sia ritornato, sa bene come basti poco per ritrovarsi con un groppo in gola. È sufficiente percorrere una viuzza del centro, vedere una porta sbarrata e ricordare i visi di chi abitava oltre quella soglia. O semplicemente ascoltare il vuoto del silenzio, a sera, in un vicolo prima animato da sciami di ragazzi. Anche se sono trascorsi tredici anni dalla terribile notte del 6 aprile 2009 – quando il terremoto sfarinò case e palazzi e si portò via 309 vite –, quella ferita, personale e collettiva, pur tante volte suturata, non riesce a rimarginarsi.
Stavolta, a farla sanguinare di nuovo e a spargere sale sulle piaghe, è una sentenza del Tribunale civile del capoluogo abruzzese, in una causa di risarcimento intentata dagli eredi di 27 vittime del crollo al civico 6/b, in via Campo di Fossa. Una sentenza che, pur riconoscendo un indennizzo ai richiedenti, lo ha ridotto del 30% per via del 'concorso di colpa' delle vittime. E quale colpa ebbero, secondo i giudici, quei poveri morti? Quella, si legge nella pronuncia, di non essere usciti di casa, di non esser fuggiti «nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile».
In quel palazzo, lo ricordiamo, risiedevano studenti universitari e intere famiglie. C’erano Riccardo e Vincenzo Giannangeli, con mamma Maria Pia. E i piccoli Davide e Matteo Cinque, con mamma Daniela. Come si può pensare che quelle mamme, nel calmarli e farli rimettere a letto dopo l’ennesima scossa, abbiano tenuto una «condotta obiettivamente incauta»? Le scosse, leggere o più robuste, andavano avanti da mesi.
E nessuna autorità si era presa la responsabilità di dire, esplicitamente, agli aquilani di lasciare le proprie case per prudenza, accusando anzi di allarmismo chi manifestava preoccupazione. Chissà, se ci fosse stato un invito ufficiale, e perentorio, a lasciare le abitazioni a rischio, accompagnato da ispezioni attente agli edifici, forse oggi la conta delle vittime sarebbe inferiore. Ma non vogliamo scivolare, anche qui, nell’ambito dei 'se', del senno di poi, dei consigli elargiti a posteriori. I suggerimenti postumi, pure se decretati con sentenza, non servono ai morti, che andrebbero rispettati, insieme ai vivi che li amavano e al loro cordoglio.
Di più: addebitare ai morti una parte di colpa suona beffardo, se si considera che le inchieste penali sulla gran parte dei 220 crolli aquilani (eccezion fatta per la Casa dello studente e poco altro) sono sfociate in assoluzioni di chi aveva realizzato le opere. Sentenze, pure quelle, che ogni volta rinnovano il dolore di eredi e sopravvissuti. Si potrebbe quasi dire, mentre la ricostruzione degli edifici privati prosegue (oggi siamo ai due terzi), che uno dei lasciti più pesanti del sisma stia nei suoi strascichi legali, paralizzanti e spesso dall’esito amaro.
Poco più su di via di Fossa, ad esempio, c’è un altro edificio, in via XX Settembre, dove perirono 9 residenti. Il lungo processo sulla responsabilità del crollo (conclusosi con l’assoluzione degli imputati) ne ha ritardato la ricostruzione, terminata di recente. Ora però quel palazzo è di nuovo prigioniero delle carte bollate. Qualche giorno fa, infatti, nel ricevere con gli occhi lucidi le chiavi degli appartamenti dove vivevano i loro congiunti, alcuni proprietari hanno appreso che sull’immobile pende un’ingiunzione di altri condomini, adirati perché l’edificio (pur ricostruito coi dovuti permessi) non rispetta gli esatti volumi di quello precedente. E ora, nelle more di una nuova causa e coi tempi di lumaca della giustizia, quelle finestre affacciate sul verde rischiano di restare vuote, quelle mura disabitate per altri anni. E non è il solo caso.
Forse, per far rivolare L’Aquila, per farla rinascere, sarebbe bene alleggerirla di questa zavorra giudiziaria, chiudendo in tempi rapidi ogni processo pendente, magari grazie a risorse giudiziarie competenti (magistrati, cancellieri) inviate appositamente nel distretto. Sarebbe, insieme a un’ultima accelerata sulla ricostruzione, un modo concreto per voltare pagina e chiudere, nei limiti del possibile, i margini di quella ferita.