Come immagine allo specchio
giovedì 17 marzo 2022

Ecco l’Italia, una volta ancora. La mobilitazione del Paese per aiutare in ogni modo pensabile il popolo ucraino – uno sforzo senza precedenti nel suo genere per corale partecipazione, inventiva, spirito pratico, cuore – ci sta mostrando allo specchio chi siamo veramente. Siamo al volante di pulmini e auto che fanno la spola tra la frontiera con i teatri di guerra e le nostre ospitali città, sulla porta delle case che si aprono, attorno a tavole che si allargano, in classi che aggiungono un banco, nelle piazze di paesi e sui sagrati delle parrocchie per accogliere chi arriva col suo carico di angoscia e di nostalgia. Negli infiniti gesti di un collettivo stringersi per fare posto a chi non ha più nulla ci si sta rivelando la nostra anima ancora sensibile, aperta, capace di soffrire insieme a chi piange, guardandolo negli occhi al livello del suo bisogno, tagliando ogni distanza.

È bene che osserviamo con attenzione l’immagine di noi stessi che ci viene restituita da ciò che vediamo accadere per mano di nostri concittadini, e per alcuni di noi anche in modo diretto e personale. Quando si entra in un’improvvisa emergenza nazionale o globale siamo come abituati a veder scattare una molla sempre pronta ad azionarsi. Il terremoto nel Centro Italia, la pandemia, la catastrofe umanitaria afghana dell’estate scorsa, e ora la spaventosa guerra in Ucraina sono tutti eventi estremi dai quali sale il grido di un’umanità sofferente, puntualmente coincisi con l’immediato sforzo della comunità nazionale per mettersi a disposizione di chi è nel bisogno, che sia un abitante di Amatrice, una famiglia di Herat, il vicino di casa o la mamma di Kiev con i suoi bambini.

Quelli che aprono le braccia e le case siamo noi, noi quelli che si arrangiano per superare barriere linguistiche e geografiche, noi che affrontiamo problemi logistici per altri insormontabili e ne veniamo a capo, che ci mettiamo nei panni di chi è povero per condizione o perché lo è diventato per sventura, e sappiamo al volo di cosa ha bisogno. Siamo noi, quelli di questi instancabili giorni: come se a ogni bomba che cade si dovesse rispondere con il centuplo di bene. Per un istinto incancellabile che ci costituisce sembriamo ogni volta consapevoli nel profondo che il momento di quella durissima prova poteva riguardarci in prima persona, e che il non essere nati in una terra che va abbandonata da un giorno all’altro non è un merito, ma una mera circostanza di fatto che non ci esenta dal sentirci partecipi del dramma altrui. Anzi.

L’indifferenza globalizzata sembra come rimbalzare sullo scudo che gli italiani sanno alzare d’impeto e in gran numero quando arriva l’ora più buia per altri che condividono con noi la stessa umanità. Conosciamo la sofferenza del prossimo come se fosse la nostra, una sapienza a lungo coltivata da una civiltà sinceramente cristiana – comunque la si pensi – prodiga di abbracci e di opere. E non possiamo trovare pace finché non abbiamo tentato tutto il possibile per alleviare il peso dell’improvvisa croce di chi è accanto.

È vero, non tutti si sono sentiti interpellati dalla spaventosa crisi aperta come un buco nero dentro l’Europa. Ed è altrettanto vero che tutto il mondo si è messo in movimento mentre il cielo del futuro sembra chiudersi sopra gli ucraini. Non è questa una materia da pagelle o classifiche di buona condotta, meno che mai di retoriche patriottiche. Ma a interessarci qui è ciò che questa nuova, imponente chiamata a uscire da noi stessi sta raccontando del Paese, di quello che continuiamo a essere malgrado tanto spesso ci sembri di diventare irriconoscibili. È, questo, un pensiero negativo che ci coglie davanti alle periodiche semine di ostilità e pregiudizio, che però evidentemente non intaccano la buona falda che alimenta l’anima della gente. Eppure lo crediamo temendo irresistibili le ideologiche totalitarie dell’io issate al di sopra di ogni relazione, e invece ecco tornare in servizio il samaritano che c’è in tutti. Ogni vita ci è indispensabile, ogni famiglia la sentiamo vicina, ogni dolore lo avvertiamo anche nostro. Non è emotività a buon mercato, perché sappiamo essere fedeli alle persone cogliendo di ciascuna l’inseparabile dignità. È uno sguardo sull’umano integrale di cui essere fieri e grati, da custodire e alimentare perché nessuno ce lo porti via.

È bene osservare quello di cui una volta ancora ci stiamo mostrando capaci per radicato istinto, e sapercelo dire, perché non è mai scontato che succeda. Noi siamo ancora capaci di essere questi, prossimi di tutti.

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