La tragedia di Mirandola ancora una volta getta nel dibattito politico sull’immigrazione un fatto di sangue che vede come protagonista negativo un giovane straniero. Che una delle vittime fosse a sua volta una persona immigrata impegnata in mansioni di assistenza non cambia il quadro. Il legame tra immigrazione e minaccia alla sicurezza appare nuovamente riaffermato. Una valutazione più razionale del grave dramma e di come cercare di evitarne altri in futuro dovrebbe però tener conto di quattro aspetti.
In primo luogo, su una popolazione di 5,5 milioni d’immigrati, in gran parte lavoratori-contribuenti e famiglie, un grave fatto di cronaca al giorno è purtroppo statisticamente probabile, per non dire certo. Questo non deve portare a criminalizzare tutti gli altri: il passaggio dalle responsabilità del singolo alla stigmatizzazione di intere collettività è una delle forme più devastanti di pregiudizio. Le statistiche giudiziarie nel passato (fino al 2005) ci informavano poi che gli immigrati irregolari commettevano più reati degli immigrati regolari.
Ora il dato non è più disponibile, ma si può presumere che sia ancora così. In parte per effetto della condizione stessa di irregolarità, che li conduce a compiere reati come la resistenza a pubblico ufficiale quando cercano di sfuggire a un controllo. In parte per la marginalità in cui si trovano, che genera reati di sussistenza come i furti nei supermercati. In parte perché la mancanza di alternative li rende più sensibili alle offerte delle reti malavitose, che li impiegano nei reati di strada più rischiosi, come lo spaccio di stupefacenti al dettaglio. In parte perché isolamento e solitudine deteriorano l’equilibrio e l’autocontrollo.
Qui il più potente antidoto è la regolarizzazione: immessi nel mercato del lavoro autorizzato e nel circuito dei diritti, gli immigrati diventano molto più propensi a rimanere nella legalità e nel circuito dei doveri, cosicché anche i tassi di criminalità si abbattono. I ricongiungimenti familiari hanno a loro volta effetti positivi in termini di normalizzazione degli stili di vita e dei comportamenti.
Occorre quindi ragionare in modo pragmatico sulle misure più idonee a contrastare il fenomeno. E questo è il terzo punto: trattenere, identificare ed espellere tutti gli immigrati non autorizzati è un obiettivo irrealizzabile. L’attuale governo in materia è rimasto agli annunci. Ha ottenuto pochi risultati nei rimpatri, anche perché i rapporti con i Paesi di origine non hanno registrato progressi, malgrado vari tentativi: quei governi hanno poco interesse a collaborare alle espulsioni. Se si desidera ottenere qualche risultato in più, sarebbe meglio concentrare gli sforzi sui casi “irrecuperabili”.
Per gli altri sarebbe meglio prevedere non sanatorie di massa, ma misure mirate, caso per caso, per chi trova lavoro, partecipa a corsi di formazione, frequenta scuole di italiano, ha sviluppato rapporti sociali significativi. La Germania lo sta facendo per migliaia di richiedenti asilo denegati: corsi di formazione professionale e permesso di soggiorno per chi trova un lavoro. Infine, bisogna tornare a investire sull’inclusione. Risparmiare su questa dimensione, come si sta facendo oggi con i richiedenti asilo, farà crescere il numero degli sbandati e degli esclusi. Si prepara così anche il terreno di coltura per altri gesti disperati e sanguinosi. Ma la questione non riguarda solo le politiche pubbliche: rafforzare il tessuto sociale, rendere più vivaci e animate le periferie, moltiplicare le occasioni di incontro e di scambio, rende le città più sicure. Comprendere anche gli immigrati in questi processi migliora la loro vita, e anche la nostra. E costruisce quel “noi” che è base di civile convivenza e concittadinanza.