Non una celebrazione, ma una spinta alla pacificazione in Colombia, un aiuto a compiere l’ultimo passo che manca. Una speranza messa nelle mani dell’uomo, Juan Manuel Santos, che ha sfidato l’eredità dei suoi predecessori e impegnato tutto sul dialogo. Un dialogo ritenuto da molti impossibile, ma che alla fine ha pagato. Questo è il Premio Nobel per la pace all’attuale presidente colombiano. È una spallata, ancor più necessaria dopo che, domenica scorsa, il sogno di una pace “rapida” è stato colpito dall’esito del referendum che ha bocciato l’accordo con i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia, le famigerate Farc. Quella manciata di voti in più per il No pesa maledettamente, e però ha solo rinviato la chiusura di un capitolo di sangue lungo 52 anni e segnato da almeno 262mila vittime, buona parte delle quali civili.
Il presidente Santos, contro tutto e contro tutti, sta infatti perseverando sul cammino intrapreso. Anche contro il suo predecessore alla presidenza, quell’Álvaro Uribe che ha guidato il fronte del No alla pace. Con profonde motivazioni politiche, Uribe ha denunciato la «riconciliazione impossibile» e il «tradimento della memoria delle vittime», riuscendo a spaccare il Paese a metà. Ma la tenacia di Santos è impressionante, e continua a dimostrarsi capace di resistere anche davanti alle provocazioni più dure, che spesso sono arrivate – e continuano ad arrivare – dal suo fronte politico piuttosto che da quello avversario.
A Cuba, in quasi 4 anni di trattative, è nato qualcosa di impensabile anche per i più ottimisti e lo hanno testimoniato le parole del leader dei guerriglieri di sinistra, Rodrigo Londono, alias Timochenko. Questi ha chiesto per la prima volta «scusa» per il male che hanno arrecato al popolo colombiano, un
mea culpa inaspettato, pronunciato davanti al presidente e a milioni di cittadini che hanno assistito in tv alla firma a Cartagena, ormai quasi due settimane fa, dell’accordo di cessate il fuoco che il referendum di domenica scorsa avrebbe dovuto trasformare in “pace” definitiva.
Uno stop malaugurato. Che rimette in dubbio il percorso compiuto sin qui. Ma il dialogo «non morirà». L’ha giurato Santos e l’hanno promesso le Farc. Insieme torneranno al tavolo negoziale di Cuba e cercheranno un modo per rabberciate un’intesa che il voto popolare, per ora, sia pure per un soffio, ha vanificato.
Quando i membri del Comitato di Oslo hanno deciso di assegnare il Nobel 2016 a Santos, probabilmente, tutto questo non era immaginabile. La strada verso la pace sembrava finalmente spianata, così come sincera appariva la volontà dei guerriglieri. Un movimento nato da legittime rivendicazioni sulla ridistribuzione delle terre ai
campesinos, ma poi trasformatosi in feroce macchina assassina e in spietato trafficante internazionale di droga. Anche per questo, verosimilmente, il Comitato ha scelto di non spingersi più in là. Si è fermato a uno dei due protagonisti, il presidente Santos appunto, di un processo di pace avvenuto anche grazie alla preziosa mediazione "pastorale" della Chiesa cattolica. Santos e non Timochenko. Il presidente con la camicia bianca, simbolo della pace, e non il guerrigliero convertito al dialogo quando le sue Farc apparivano sempre rinchiuse in un delirio di potere e violenza e dunque, sempre più politicamente residuali. Qualcuno aveva ipotizzato un "Nobel per due", come fu per la coppia Peres-Rabin e per Arafat per gli accordi del 1993 a Oslo tra Israele e Olp. Un precedente suggestivo e aspro, perché quella speranza di pace non si è mai fatta concreta in una Terra Santa dove le fratture e le sofferenze restano profonde.
Non va insomma taciuto né dimenticato che il Comitato del Nobel per la pace ha guardato oltre i dati di realtà e deciso di dare solenne riconoscimento a un cantiere di pace ancora aperto. Eppure il premio a Juan Manuel Santos appare meno “prematuro” di quello assegnato a un presidente statunitense, Barack Obama, appena insediatosi. È una sorta di investimento, l’accettazione di una speranza densa di elementi di certezza. Una promessa per un Paese che, dopo mezzo secolo, vuole provare il sapore della pace e, a ben vedere, per l’intera America Latina. Una promessa da mantenere.