Un tribunale (Ansa/Irpinia News)
Dopo l’analisi del procuratore aggiunto di Torino Borgna sul processo penale, il parere di un avvocato
Il 24 ottobre ricorrerà il trentesimo compleanno del Codice di procedura penale: pur sfogliandolo quotidianamente da undici anni, resta per me territorio ancora ampiamente inesplorato, non di rado capace di riservare sorprese nascoste nei suoi commi – originari o aggiunti dal legislatore nel tempo – o nelle interpretazioni che degli stessi la giurisprudenza della suprema Corte non si stanca mai di offrire. Trent’anni sono sufficienti per fare un bilancio. Numerosi addetti ai lavori che, a differenza mia, hanno avuto modo di vedere i mutamenti dell’ordinamento sin dagli esordi del Codice stanno offrendo le loro valutazioni, chi positive, chi meno. Tra questi ultimi il dottor Paolo Borgna, magistrato di grande esperienza, di cui ho letto con interesse l’articolo apparso su Avvenire lo scorso 3 settembre (si può leggere a questo link: CLICCA QUI). Partendo da un dato d’esperienza incontestabile, ossia la lunghezza (o meglio lungaggine) dei procedimenti, egli ritiene fallimentare l’esperienza del vigente Codice di rito.
È vero, numerosi processi sono troppo lunghi, benché, in concreto, non direi frequenti quelli ultradecennali. Sto parlando dei processi penali ma forse anche questi, come quelli civili, saranno destinati a sprofondare in tempi biblici, a causa della sciagurata scelta di abolire la prescrizione: un 'rattoppo' al codice penale – non a quello di procedura – che si riverbererà inevitabilmente sulla lunghezza del processo. La diagnosi della patologia identificata da Borgna è dunque corretta e meritevole il prima possibile di una cura, ma non penso che il 'Codice Vassalli' sia l’origine di tutti i mali. Sono convinto che le piccole riforme siano un rischio, ma mi permetto di annotare che i 'mini-interventi' più recenti, in ambito procedurale, si stanno rivelando positivi: dalla sospensione dei processi a carico delle persone irreperibili alla sospensione di quelli per reati meno gravi finalizzata a sottoporre l’accusato a una prova in favore della collettività; dalla possibilità di dichiarare l’estinzione dei reati di particolare tenuità alla chiusura dei processi tramite condotte riparatorie giudicate idonee anche laddove la persona offesa – per partito preso – non voglia rimettere la querela.
Non è possibile, a mio avviso, ipotizzare in questo frangente storico e politico una riforma radicale del Codice di procedura sia perché mancano in Parlamento giuristi all’altezza di un tale ambizioso progetto, sia perché – in ogni caso – il pensiero politico è talmente segmentato e arroccato su posizioni antitetiche, che non vi sarebbe la serenità per approvare meccanismi procedurali più snelli, coerenti e aderenti allo schema costituzionale del 'giusto processo' di quello ad oggi in vigore. Vi è, infine, una terza ragione che mi pare militare in direzione opposta alla tensione totalmente riformatrice del Codice di rito: la metabolizzazione delle regole del gioco da parte degli operatori (avvocati, giudici, cancellieri, polizia giudiziaria, ausiliari e consulenti di vario tipo) e la loro esatta interpretazione giurisprudenziale è di per sé un processo strutturalmente lento, che necessita di anni, se non di decenni. Il Codice in vigore – prossimo appunto al compimento del trentesimo anno di vita – è da moltissimi penalisti (formatisi all’epoca del Giudice Istruttore) definito ancora oggi il 'Nuovo Codice'.
In sintesi ritengo che il Codice di procedura penale, nel variegato orizzonte legislativo, resti un piccolo capolavoro che sebbene fatichi a reggere la massa travolgente dei procedimenti penali, ancora resiste e laddove non avvertito come un peso, ma applicato come garanzia di funzionamento di quella complessa macchina retrospettiva che è il processo penale, sa offrire dei risultati talora stupefacenti. Bene – si potrebbe dire ora – questo discorso può valere per pochi processi dove fare un dibattimento articolato è necessario ai fini della giustizia. Il problema è che il sistema è nel suo complesso ingolfato perché la maggior parte dei processi dovrebbe essere definita con i riti alternativi, cioè con quelle forme di procedimento più agili per i Tribunali e vantaggiose per i diretti interessati. Secondo Borgna sta proprio qui il fallimento: i colpevoli preferiscono puntare sulle lungaggini procedurali e scegliere la via del dibattimento e così facendo contribuiscono a incagliare ulteriormente la situazione.
Da avvocato, tuttavia, penso di poter dire che ben di rado si consiglia al proprio assistito di affrontare un dibattimento solo perché 'allunga il brodo'. Capita eventualmente nei casi già di per sé patologici, ossia quelli in cui le indagini sono (formalmente) durate anni e l’azione penale è stata esercitata quasi a ridosso della prescrizione. Altrimenti il criterio del tempo raramente influenza le scelte difensive. Rispetto a certi reati (ad esempio quelli in materia di stupefacenti) o a certi contesti (quando si viene arrestati in flagrante e tratti per direttissima avanti a un Giudice l’indomani rispetto al fatto) si patteggia moltissimo. Si fanno accordi che in pochi minuti vengono raggiunti tra Pm e avvocato, sentenziati, motivati contestualmente (questo vuole la Cassazione) e che, di fatto sprovvisti di effettive impugnazioni, diventano irrevocabili nel volgere di due settimane o poco più.
Probabilmente è vero – statistiche nazionali alla mano – che per l’abbreviato si opta ancora troppo poco. Con questo rito si accetta un giudizio sulle carte: quelle dell’indagine condotta dal Pm, ma volendo pure quelle relative alle investigazioni del difensore. In cambio della celerità, in caso di condanna, si ottiene lo sconto secco di un terzo della pena. Cosa frena la scelta? Non penso il desiderio del dibattimento (se si fa il processo 'normale' l’avvocato costa di più e c’è il rischio che arrivi una condanna più gravosa), ma credo piuttosto il timore di una interpretazione restrittiva dell’abbreviato. Che si dovrebbe poter scegliere con una certa serenità (innocente o colpevole che sia l’imputato) quando si ritenesse probabile l’assoluzione per l’insufficienza delle prove raccolte. Sta qui un problema che a mio avviso non risiede nella carta, ma nella mente. È diffusa l’idea (purtroppo confessatami come propria anche da alcuni giudici) che si faccia l’abbreviato solo per avere lo sconto. Ma non è così: servirebbe un cambio di mentalità all’insegna del garantismo, ossia nel solco del Codice vigente.
Sul fronte dell’avvocatura sarebbe opportuna una maggiore e più seria specializzazione, perché non sempre siamo all’altezza della nostra professione. In un contesto di più approfondita conoscenza non solo della lettera, ma dello spirito del Codice di procedura penale ritengo possibile quel dialogo tra magistrati e avvocati che Borgna auspica. Rispettarsi reciprocamente porta a parlarsi direttamente, senza una visione autoreferenziale e oracolistica del proprio ufficio. Non stiamo vivendo tempi bui per la giustizia penale. Molte nubi si possono dissipare senza cambiare le regole del gioco. E questo mi pare tanto più possibile in un tempo in cui la magistratura, proprio perché travolta da uno scandalo, sta positivamente dimostrando di non essere una casta e di controllare la correttezza dell’operato dei suoi vertici e anche l’avvocatura (lentamente, ma progressivamente) sta abdicando all’idea di appartenere ad un ceto, favorendo l’avvicendamento dei rappresentati nei propri consigli e offrendo, tramite un associazionismo vivace, un contributo disinteressato alla tutela dei diritti fondamentali di tutte le persone, indipendentemente dalle loro condizioni e provenienze.
Alessandro Bertoli è avvocato, aderente all'Unione giuristi cattolici italiani