È solo l’ultimo anello di una spaventosa catena di violenza. Anzi, mentre scrivo, altri cristiani saranno già stati uccisi in qualche parte del mondo, secondo le terribili statistiche delle vittime dell’odio religioso. Ma mi colpisce il luogo in cui è stata uccisa due giorni fa una giovane cristiana pakistana: Quetta, la capitale del Beluchistan pakistano. Città pakistana quasi sconosciuta vicino alla frontiera con l’Afghanistan, il cui nome in tivù viene spesso storpiato, è ascesa in questi anni a una triste notorietà perché ospiterebbe da tempo Mullah Omar, il capo storico dei talebani. Una città ormai pressoché preclusa agli occidentali. Eppure, fino a una dozzina d’anni fa era una delle città più vivibili del Pakistan. Ricordo i lunghi soggiorni trascorsi laggiù lungo tutto un decennio, ospite di un convento delle suore di San Giuseppe. Il cancello di ferro era spesso chiuso, ma solo per evitare che i bambini della loro scuola corressero in strada: in realtà chiunque poteva entrare. Una vecchia suora accoglieva arcigna i ritardatari, uomini giunti in ritardo per via del traffico, che si facevano piccoli mentre venivano redarguiti per aver accompagnato tardi i loro figli. Dall’altra parte della via, oltre la cortina dei pini, la grande scuola media, ambita da tutte le famiglie di Quetta. Poco lontano la chiesa: isole di cristianità nel mare dell’islam che vivevano con tranquillità, senza protezioni, scorte o minacce.
Ogni giorno una folla di pakistani urlava e strombazzava dinanzi le porte del convento: ma era solo il traffico anarchico dei padri venuti a riprendersi i propri bimbi da quelle scuole così stimate. Ricordo un colonnello delle forze armate che voleva iscrivere la figlia a ogni costo, anche se non c’era più posto. Mise sulla scrivania della superiora un’ingente somma di denaro e lei rifiutò. Lui riprese i soldi e disse: «Questo suo gesto è il motivo per cui mia figlia deve a tutti i costi studiare da voi». E quante erano le madri - musulmane, cristiane, cosa importa - che discrete chiedevano e ricevevano un aiuto dai religiosi di Quetta? Quanti i padri che con vergogna dicevano di non poter pagare e, sospirando, si tracciava una riga sulla loro retta mensile? Decenni fa la prima superiora, essendo la scuola sull’orlo della bancarotta, andò in bicicletta verso la sontuosa dimora del Governatore. «Ho chiesto aiuto a Dio ma, mentre aspetto il Suo aiuto, non mi dispiacerebbe ricevere il suo, Governatore». E lui pagò, perché quelle scuole - disse - erano il vanto della città. Erano gli anni in cui si poteva stare di notte sul tetto del convento a conversare e guardare le stelle, così nitide e luccicanti. Oggi saremmo probabilmente scambiati per terroristi dai soldati di pattuglia.
Quel mondo lotta da anni, con crescente fatica, per rimanere fedele alla sua storia di comunità aperta: molti religiosi occidentali sono stati rimpatriati; blocchi di cemento e strade presidiate 'indicano' spesso in Pakistan la presenza di chiese e scuole cristiane. Alla violenza criminale dei fanatici si associa l’ambiguità meschina e pavida di quasi tutte le forze politiche e del governo di Islamabad. Un’intera comunità è ostaggio di queste violenze; il cemento che dovrebbe proteggerle sembra la metafora di una forzata separazione da un Paese che sta percorrendo la via sbagliata dell’odio settario e dell’autodistruzione. Prigionieri per colpe non commesse, come Asia Bibi, che è diventata, suo malgrado, il simbolo dei dolori della sua comunità. E come Younis Masih, in carcere da sette anni, anche lui con l’accusa di blasfemia (ne parliamo a pagina 17, n
dr).
Camminando una sera per le vie di Quetta un giovane olandese che si occupava di uno dei tanti campi profughi sorti lì vicino, mi chiese: «Non trovi che questo posto sia bellissimo?». Risposi di sì, ma oggi penso che no, non lo sia più, e non per colpa nostra.