Ciò che ci lega e fa italiani
mercoledì 29 gennaio 2020

Le parole di cordoglio per Kobe Bryant pronunciate ieri a Benevento da Sergio Mattarella all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università del Sannio ci chiamano a una riflessione che va oltre l’incidente di elicottero nei cieli di Los Angeles in seguito al quale hanno perso la vita nove persone. Il Presidente si è detto rattristato da questo tragico evento sottolineando il legame profondo che il grande cestista dei Lakers aveva nei confronti dell’Italia dove si era formato grazie alla «frequenza delle scuole elementari e medie».

Il piccolo Kobe trascorse da noi gli anni più belli della sua infanzia e prima adolescenza, al seguito del padre Joe, anch’egli campione di basket. Alcune foto lo ritraggono da bambino a Rieti, mentre s’infila il giubbetto di jeans, Pistoia, in calzoncini sotto il canestro, Reggio Calabria, sulla spiaggia con gli amici davanti allo Stretto, Reggio Emilia, con gli Aquilotti delle Cantine Riunite, dove stanno per intitolargli una piazza. In queste città aveva imparato a "fare i blocchi" per giocare a pallacanestro, ma anche le parole capaci di esprimere i sentimenti. E così le stagioni indimenticabili e travolgenti della crescita culturale e sportiva segnarono per sempre l’esistenza del giocatore e dell’uomo che ogni volta tornando nel Bel Paese mostrava affetto e riconoscenza verso chi lo aveva accolto e fatto sentire a casa propria. Tifoso milanista, aveva tirato i classici quattro calci al Parco Sempione e quando, molti anni dopo, si vide immortalato in un salto acrobatico sullo sfondo del Castello Sforzesco, non mancò di raccontare la sua emozione. Del resto, basta scrutinare i nomi delle figlie per comprendere il rapporto speciale che Bryant aveva con noi: Natalia Diamante, Bianka Bella, Capri Kobe e Gianna Maria-Onore, detta Gigi, la tredicenne precipitata insieme a lui mentre volava a trecento all’ora dentro la nebbia fitta della West Coast.

Cosa vuol dire essere italiani? È proprio Mattarella a ribadirlo con chiarezza cristallina: «La comunanza di studi è quella che lega davvero più di legami politici, istituzionali, ed economici, che lega l’umanità attraverso i suoi confini ed è antidoto alle incertezze internazionali».

Questa convinzione è la stessa dei grandi scienziati novecenteschi. Sono stati loro a spiegarlo: la lingua è la casa del pensiero, il luogo della formazione spirituale, la sorgente della personalità, la radice di ciò che siamo o vogliamo essere. Senza la dimensione verbale l’uomo non potrebbe elaborare alcuna identità, ogni emozione resterebbe un grumo inespresso, qualsiasi esperienza sarebbe vana. Nella convenzione linguistica gli individui possono dialogare senza perdere niente di se stessi, scambiandosi i valori in cui credono e rafforzandoli nella dialettica del confronto critico. Prova a tenere per te una qualsiasi cosa, trasformandola in una tua proprietà esclusiva e presto la vedrai svanire. Le bandiere assumeranno la forma degli stemmi araldici, le fedi diventeranno programmi di combattimento, gli Stati castelli fortificati, perfino l’amore rischierà di trasformarsi nel suo contrario.

Questa consapevolezza di coralità non è naturale e va costruita con pazienza e lungimiranza nel tempo e nello spazio, senza cedere all’istinto di conservazione dell’animale che arretra e si chiude nella tana. Dovremmo quindi superare di slancio tutte le strumentali e ciniche resistenze che ancora oggi frenano il varo di una legge sullo ius culturae. Chi, come me, insegna l’italiano agli immigrati, vive sulla propria pelle tale situazione paradossale, che di anno in anno si fa sempre più insostenibile. Eccoli qui i nostri futuri connazionali, Zimmy, nigeriana, Adem, eritreo, Malik, pachistano, Daniel, albanese, Lucinda, capoverdiana, Kama, turca, Omar, somalo, impegnati a sillabare l’alfabeto, imparare il lessico, coniugare i verbi. Magari non diventeranno campioni come Kobe, ma stanno già ripercorrendo le sue tracce. Sono loro i fratelli e le sorelle d’Italia. Perché non riconoscerlo?

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