Gino Strada e io per qualche anno ci siamo visti ogni giorno. Eravamo, ufficialmente, quelli che si definivano studenti lavoratori. Studiavamo con grande passione l’anatomia, fino alla maniacalità, con il nostro insuperabile maestro Sergio Milanesi. Sapevamo di avere due strade diverse ma, forse, analoga muscolatura per il pugilato della vita. Lui mirava a diventare chirurgo di guerra, deciso com’era ad avversarla e a salvare gli uomini che, in qualche modo volenti o nolenti, ci finivano dentro. Io desideravo conoscere nei dettagli il corpo umano, per capire un po’ di più della mente che dà la parola poetica e può cambiare il mondo, togliendolo dai suoi provincialismi abituali. Gino, come me era un ex sessantottino, sposato con Teresa, dai bellissimi capelli rossi, aveva già una bimba, che lo avrebbe seguito.
L’erede di Schweitzer, lasciatemelo chiamare così, aveva avuto contrasti, ad esempio con il professor Staudacher, che lo citò in giudizio, credo per interruzione di pubblico servizio. Divennero grandi amici. Succede spesso fra galantuomini che si affrontano. Ogni notte che a chirurgia d’urgenza al Policlinico di Milano, arrivavano feriti dai disastri stradali o malavitosi, sapevano di poter telefonare a Gino Strada che sarebbe corso dalla sua Sesto San Giovanni, allora conosciuta come 'Stalingrado d’Italia', per via dell’altissima presenza di operai comunisti e che era, però anche la città del pensatore aclista Giovanni Bianchi. Gino tentava nuove vie di aggressione operatoria anche lavorando in condizioni inventive di chirurgia sperimentale. Ho in mente inoltre quando affrontò il viaggio in macchina con qualcuno, per andare al funerale di un esponente delle rivolte iugoslave, e mentre viaggiava, studiava in vista di un esame universitario imminente.
Quando mi è capitato di vederlo intervistare in televisione, mi sembrava sempre che il giornalista di turno si rapportasse a lui come un cammello a un orso bianco del Polo Nord. Il suo gesto tipico, mentre parlava nelle pubbliche assemblee o a lezione, era di far ruotare, come le lancette di un orologio impazzito, una catenella che inanellava le chiavi del suo mazzo personale. Era alto, vigoroso e di bell’aspetto, con un ciuffo di lato al quale ometteva di dare pubblicità con qualche gesto calcolato. Poi ci perdiamo di vista, lui crea il percorso di Emergency e va a soccorrere e portare salute là dove è troppo rischioso e i topi scappano. La mano chirurgica di Gino salva le vite a prescindere dalle appartenenze politiche o religiose: salva chiunque e ovunque, Italia compresa. Su una figura come la sua sarebbe facile la retorica o addirittura l’impostura. Alcuni teologi parlerebbero di stile cristiano. La sua fatica umanitaria è culminata in un infarto, dal quale lo ha salvato il blitz di un elicottero.
L’ho incontrato al funerale della moglie Teresa: ci siamo abbracciati e compresi per le nostre diverse strade. Poi qualche attore non ha saputo resistere alla tentazione di farsi notare con un inutile sproloquio. Il suo viso televisivo si era progressivamente segnato ed era incominciato qualche doloroso tic alla bocca, non certo alla bussola del pensiero. Il suo nome è tornato all’evidenza alle ultime elezioni per il presidente della Repubblica e, poi, per la scelta del Commissario anti-Covid in una della situazioni più delicate. Naturalmente non se ne è fatto nulla. Gli uomini eccellenti servono giusto per poterli citare da lontano e poi si torna a sfrucugliare nelle tarantelle dei compromessi. Gino ha realizzato la solidarietà tra i continenti, lontano da ogni trionfo nella propria regionalità.