Di Giuseppe Conte si dice che sia un grande incassatore. Ma, proseguendo nella metafora pugilistica, è anche uno che non ci sta a essere messo all’angolo e, quando vi è costretto, cerca di uscirne con grinta.
Approfittando per altro del fatto che, chissà perché, l’avversario di turno tende sempre a sottovalutarlo un po’. Conte lo aveva dimostrato nella calda estate del 2019, quella della crisi di governo più balneare della storia repubblicana, aperta di fatto da Matteo Salvini dalla spiaggia di Milano Marittima: quel discorso è ricordato per gli accenti di particolare durezza che il presidente del Consiglio ebbe nei confronti di colui che era ancora, in quel momento, il ministro dell’Interno seduto alla sua destra. Ieri, verso chi allora gli consentì di restare a Palazzo Chigi con un cambio radicale e se vogliamo spregiudicato di maggioranza, ovvero Matteo Renzi, Conte è stato verbalmente più morbido, ma politicamente altrettanto ultimativo: il rapporto con Italia Viva si chiude qui, «non si può cancellare quel che è accaduto», bisogna mettersi al più presto alle spalle questo momento, occorre «voltare pagina».
Insomma, per la seconda volta, l’avvocato e docente universitario fino a tre anni fa conosciuto soltanto dai suoi studenti e dai clienti del suo studio legale, ha di nuovo accettato la sfida sulla guida del Paese lanciata dal rivale di turno. Una sfida che, stavolta, sembra ancora più al buio: non si tratta di cambiare maggioranza, ma di sostituire un pezzo minore di quella esistente con un altro pezzo di cui, per ora, non si vedono i contorni. E a cui Conte ha chiesto (se davvero esiste) di palesarsi, sia per la richiesta esplicita del Pd di fare tutto «alla luce del sole», sia per non prestare il fianco alle critiche di chi, non senza qualche ragione, l’ha fin qui accusato di tenere in poco conto il Parlamento, le parti sociali e qualche volta gli stessi partiti della maggioranza, preferendo affidarsi, per le questioni più delicate, al più stretto giro dei suoi collaboratori. Che poi, per ironia della sorte, è la stessa accusa che, anche in quel caso non a torto, veniva rivolta a Renzi ai tempi di Palazzo Chigi (si ricorderà il celebre «Giglio magico»).
Ieri Conte, indubbiamente con un certo ritardo, ha cercato in ogni modo di smentire questa narrazione: ha ringraziato il Parlamento tutto, le forze di opposizione e gli stessi esponenti di Italia Viva per i miglioramenti apportati ai numerosi provvedimenti resi necessari dalla pandemia in corso; ha sottolineato l’importanza dell’interlocuzione con i sindacati, le associazioni di categoria, il Terzo settore; ha riconosciuto la possibilità di aver commesso errori, sempre però richiamando l’eccezionalità e le enormi difficoltà di un’azione di governo portata avanti nel quadro di una terribile emergenza sanitaria mondiale.
E, in questa eccezionalità, ha rivendicato il merito del contributo dato dall’Italia alla nascita di quella grande occasione fornita dal Next Generation Eu.
Un’occasione storica che tuttavia, tutti ne sono consapevoli e preoccupati (il Quirinale per primo), può essere fallita. E sarebbe un fallimento tragico. Intorno a questo timore è scoppiata la crisi in corso, che però – su questo Conte ha senz’altro ragione – risulta incomprensibile ai più. Il presidente del Consiglio ha insistito in particolare sul fatto che le scelte fatte fin qui sono «politiche», frutto di «una chiara visione strategica» e non di «una gestione contingente» o di «un mero esercizio di potere», capovolgendo in questo modo la versione di Renzi e del centrodestra. Per coloro che lo vorranno sostenere ha sostituito l’aggettivo «responsabili», ormai caricato nel lessico politico di un’accezione negativa, con «volenterosi».
Si è appellato al patriottismo, termine che dopo anni di oblio sembra tornato in auge al centro, a destra e a sinistra.
E ha battuto più volte sul tasto dell’europeismo, nel tentativo di staccare pezzi di centro dall’alleanza con i sovranisti di Lega e Fdi. Superata senza sorprese la prova della Camera (dove forse a Conte è andata perfino meglio del previsto), resta da vedere se oggi, all’appuntamento decisivo al Senato, risulterà vincente il suo appello ai «liberali, popolari, socialisti». Purché queste ultime non siano soltanto etichette prive di contenuti (non c’è oggi un solo partito, dal più grande al più piccolo, che non tenda a definirsi con almeno una di esse) e che la vittoria non sia esclusivamente matematica. In tal caso, i problemi non tarderanno a riemergere e saranno dolori per l’Italia. C’è da augurarsi che la responsabilità non si riduca a un giro di poltrone.