giovedì 6 agosto 2015
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Cosa convince a salire su una barcaccia insieme ad altre centinaia di persone e sfidare il mare? Cosa spinge un padre a nascondere un figlio in una valigia per passare la frontiera? Cosa muove un fratello a compiere lo stesso gesto e mettere la borsa così preziosa nel portabagagli di un’auto che si sta imbarcando per la Spagna? Cosa costringe a restare appollaiati su uno scoglio per giorni? Chi è così disperato da voler attraversare il Canale della Manica a piedi?Molte volte al Centro Astalli di Roma ci siamo trovati a rivolgere domande simili ai giovani afgani che viaggiano sotto il motore di un tir rischiando la vita, ai somali che attraversano il deserto senza acqua e cibo, alle donne eritree costrette all’orrore nelle carceri libiche. Loro, i privilegiati sopravvissuti, rispondono raccontando la disperazione, la guerra, la dittatura, le torture... Oggi non è a loro che bisogna rivolgerle queste domande: il loro dolore vivo, sanguinante, commuove e scuote, ma questo non ci deve bastare. Ancora una volta siamo costretti a contare il numero delle vite spezzate ingiustamente dalla mancanza di alternative sicure e legali al traffico di esseri umani. Ed è proprio giunto il momento in cui gli stessi interrogativi assillino le istituzioni nazionali e sovranazionali, l’Unione europea. È doveroso che siano loro a dare risposte, a trovare soluzioni. Servono visioni politiche, capacità di leggere i fenomeni, progettualità e programmazione. Non permettiamo che anche questa volta emotività e indignazione siano le uniche reazioni davanti all’ennesima cronaca di una infinita serie di morti annunciate. Interrompiamo il macabro rituale di assistere allo sfilare di notizie e dichiarazioni superficiali e demagogiche da parte di chi ha la precisa responsabilità di fermare tutto ciò.Ceuta, Melilla, Lampedusa. Calais, le isole greche, gli scogli liguri... Frontiere involontarie e inadeguate di una terra che si finge roccaforte, che si crede inespugnabile, che si mostra ingioiellata di metri e metri di filo spinato e che si copre di muri.Non accontentiamoci ancora una volta di spiegazioni, pretendiamo soluzioni: come porre fine all’ecatombe? Come impedire a migliaia di persone di “morire di confine” in un’Europa chiusa, sterile, piena di odio?Siamo chiamati a essere solidali, accoglienti, siamo chiamati a farci carico dei drammi del mondo in nome della comune umanità. Ciascuno in prima persona può porre fine al dolore di chi si mette in viaggio per cercare una vita migliore. Non lasciamoci convincere del contrario. Non deleghiamo a chi non mette al centro il bene di ogni persona, a chi non lavora ogni giorno per costruire la pace e per garantire uguaglianza di diritti e possibilità per tutti gli esseri umani. Rischiamo che le generazioni future raccolgano una terra ferita, sporcata dall’odio e dalle guerre che noi abbiamo permesso. Basta con l’illuderci che la nostra principale emergenza sia rappresentata dal numero di persone che giungono in Europa. La principale urgenza è riappropriarsi di un senso di umanità che sembra sfuggirci. Solidarietà, fratellanza, umanità sono una vocazione. È ciò che ciascuno di noi si aspetta di ricevere dall’altro, in qualsiasi tipo di relazione umana. Si tratta di un’aspettativa legittima, di un diritto umano... E allora perché oggi a casa nostra, nella nostra Europa, permettiamo che giovani uomini e donne – spesso anche bambini – in cerca di una vita degna e libera muoiano al confine dei nostri ciechi egoismi?*Presidente del Centro AstalliServizio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia
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