Cattolici e copti: alternativi all’odio
venerdì 28 aprile 2017

Francesco con Tawadros nel cantiere dell’«incontro» C’è uno sguardo comune testimoniato dal papa dei copti ortodossi Tawadros e da papa Francesco: hanno sempre rifiutato come falsa e strumentale l’equazione tra violenza e islam. Hanno sempre reso visibile che la convivenza e la collaborazione tra diverse culture religiose nella storia e nella realtà non solo è possibile, ma esiste, ed è una ricchezza. Hanno sempre smascherato le perverse manovre dei banditori degli scontri e cercato la civiltà dell’incontro che si chiama fraternità e bene comune, hanno sempre ricercato l’unità e non l’uniformità. Cosa vuol dire questo sguardo comune? Vuol dire costruire la pace. Cioè l’unica razionale alternativa alla catena dell’odio contro il genere umano di chi perpetua ingiustizie e miseria e prospera con l’industria e il commercio delle armi. Il Papa oggi non va in Egitto a lanciare la sfida ai terroristi. Non va come leader politico a rovesciare piani geopolitici. Non va a promuoversi difensore dei cristiani di quella terra, perché la loro stessa storia di cristiani autoctoni li sottrae a ogni tentazione di immaginarsi come rappresentanti dell’Occidente “cristiano” in partibus infidelium.

Le reti del terrore hanno ben chiaro che la strada per destabilizzare la convivenza secolare dell’Egitto, che ha un ruolo non secondario nell’aerea mediorientale, passa per la deliberata istigazione di scontri confessionali tra musulmani e copti. Nei loro interventi ufficiali i leader copti hanno invece sempre battuto il tasto della concordia interreligiosa come garanzia dell’unità del Paese, rivendicando la propria storica comunanza di destino con i concittadini musulmani. Così i copti non restano invischiati nelle trappole del settarismo. E, soprattutto, continuano ad attestare uno sguardo autenticamente cristiano davanti alle vicende martiriali che li toccano nel vivo della loro carne. Non hanno reagito alle violenze con accuse generiche verso la comunità islamica e recriminazioni “persecuzioniste”, e anzi, come credenti, hanno dato ancora l’estrema e spiazzante testimonianza del perdono. Il viaggio di papa Francesco in Egitto ha il suo primo momento all’Università di al–Azhar, con l’intervento alla Conferenza internazionale per la pace organizzata dal prestigioso centro accademico sunnita che ha messo a tema il ruolo dei leader religiosi nel contrasto al terrorismo e nell’opera di consolidamento dei princìpi di cittadinanza e integrazione. Qui si diffonderà anche una dichiarazione sul cosiddetto «Rinnovamento del discorso religioso».

Una nota da tener presente se si considera che la richiesta di «rinnovare il discorso religioso» per contrastare le tendenze fanatiche ed estremiste era stata avanzata dal presidente egiziano Abdel Fattah al–Sisi proprio ad al– Azhar già diverse volte e che finora il leader egiziano si era spesso lamentato per la scarsa accoglienza riservata a questa richiesta. Una richiesta che mette in rilevo un’urgenza educativa. Papa Francesco non potrà non ricordare, come sempre, che il ruolo dei leader religiosi è di aprire cammini di pace e di denunciare chi profana il nome di Dio compiendo atrocità nel suo nome. L’Egitto è la reminiscenza biblica che vide scendere Dio sul Monte Sinai per stabilire un’alleanza con gli uomini, e vide qui rifugiato Cristo stesso. Il Vescovo di Roma va adesso in questo crocevia del mondo, in questa terra martoriata dalla violenza che è culla delle tre fedi in un unico Padre, che ha bisogno adesso «di operatori di pace e di persone libere e liberatrici, di persone coraggiose che sanno imparare dal passato per costruire il futuro senza chiudersi nei pregiudizi; ha bisogno di costruttori di ponti di pace, di dialogo, di fratellanza, di giustizia e di umanità».

Francesco qui non compie questa risalita da solo, ma insieme ad altri fratelli delle diverse Chiese cristiane che si ritrovano uniti dal sangue versato dai martiri. Perché l’unità dei cristiani non è un “serrate le file” motivato da ragioni ideologiche o di egemonia mondana, è un dono di grazia implorato dallo stesso Gesù al Padre come segno di riscatto dal male, riverbero visibile di redenzione. E perciò ha come naturale orizzonte il destino di tutti gli uomini e tutte le donne del mondo. Non si può che guardare oggi a questa manifestazione di fratellanza dentro un ecumenismo inclusivo a beneficio di tutta la società, segno d’incoraggiamento e testimonianza. Sono le limpide linee spirituali e storiche di un gesto che non lascia margine a fraintendimenti. Inshallah. Se Dio vuole.

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