Viene da chiedersi cosa altro debba succedere perché questo Paese e chi lo guida prendano atto che lo stato delle nostre carceri costituisce una colpa politica non meno grave di molte delle colpe individuali che vi si espiano.
Dopo che, negli ultimi dieci anni, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte costituzionale, il Presidente Napolitano e l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso di insediamento e nuovamente nel recente messaggio di fine anno, hanno giudicato la nostra situazione carceraria, soprattutto a causa del sovraffollamento, giuridicamente e umanamente indegna di un Paese civile, per la prima volta nella storia il Papa ha voluto aprire una porta del Giubileo nella “basilica” penitenziaria per cercare di restituire a chi vi è ristretto «la parola che il dito di Dio scrisse sulla fronte di ogni uomo: speranza!» (Victor Hugo).
Un gesto, il Suo, non solo di solenne, suggestivo cerimoniale, ma di autorevolissima sollecitazione ai Governi affinché «nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi» (Bolla di indizione del Giubileo).
Difficile immaginare una maggiore sintonia tra il vangelo religioso e quello laico consacrato nella Costituzione (art. 27 comma 3: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato»). Sono insegnamenti accordati sul diapason dell’umanità, del rispetto della dignità della persona e del suo diritto alla speranza, come papa Francesco ha ribadito con forza dal suo altissimo scranno.
Insegnamenti che però si arrestano al sordo orecchio della politica. Anzi, alcuni fra coloro che per ruolo e per intima fede sono portatori sia dell’insegnamento laico sia di quello evangelico auspicano che si gettino via le chiavi delle prigioni, lasciandovi marcire i reprobi che vi sono rinchiusi o si vantano di non volerli neppure incontrare, nonostante sia loro dovere istituzionale.
Frutto di disumanità? Mi rifiuto di crederlo. La spiegazione dovrebbe presumibilmente risiedere nel fatto che il politico di oggi si percepisce come un imprenditore che misura il suo valore sulla capacità di produrre reddito elettorale. E di certo quello basato sull’insicurezza sociale, sul pericolo incombente, sull’intransigenza punitiva è da sempre un ottimo investimento. Gridare al lupo e poi digrignare i denti del cane da guardia ha sempre reso molto, anche perché è a costo zero: basta coniare nuovi reati, aumentare le pene, imporre un’inflessibile segregazione detentiva per i (ritenuti) colpevoli. Che poi sia rimedio dileggiato dalla realtà (gli Usa, ad esempio, con la maggiore popolazione penitenziaria del mondo registrano uno degli indici di criminalità più alti in assoluto) poco importa. L’importante è che l’espediente frutti consenso. E lo sappiamo: «non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto bisogno di crederci» (C. Wolf, Medea)
L’unica possibilità è riuscire a far capire agli elettori che il rispetto della dignità della persona carcerata e la stimolante speranza di poter realmente incidere sul proprio destino sono fattori di drastico decremento della recidiva del condannato quando torna libero. Ce lo testimoniano le esperienze di sistemi penitenziari a dimensione umana, quali ad esempio gli Apac brasiliani, la prigione di Bastoy in Norvegia, il nostro carcere di Bollate. Ce lo attestano le statistiche. Ce lo ricordano gli studiosi della psiche, per i quali concepire «il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far del male è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge» (Vittorino Andreoli). Ce lo ricordano i grandi conoscitori dell’animo umano: «Senza un qualche scopo e senza l’aspirazione a raggiungerlo nessun uomo può vivere. Quando ha perduto lo scopo e la speranza, l’uomo, dall’angoscia, si trasforma non di rado in un mostro» (Dostoevskij).
Solo quando la collettività, correttamente informata, riuscirà a realizzare che il cieco “punitivismo” rappresenta un fattore non già di tutela, ma di messa in pericolo della propria sicurezza, investire sulla sua paura non sarà più elettoralmente redditizio e allora si potrà voltare questa vergognosa pagina del nostro sistema punitivo. Ma incombe su una simile speranza l’ombra del monito che Sciascia lasciò “A futura memoria”: «I cretini, e ancor più i fanatici, son tanti(...): contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti (…). E continueranno a crederlo».
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