Anche Mario Draghi ha lanciato l’appello per un «patto per la crescita », anche Angela Merkel si sta convincendo che si tratta di una necessità. Sta diventando chiaro a tanti – e, meno male, anche a tanti tra coloro che contano – che basarsi unicamente sul «patto fiscale» non solo è troppo poco, ma rischia di peggiorare ulteriormente la situazione economica e sociale dei Paesi europei più fragili. Crescita, dunque; ma crescita di che cosa?
Senza abbracciare le tesi radicali, e a volte ingenue (soprattutto nelle terapie che propone) della cosiddetta decrescita, occorre essere coscienti che la domanda più importante sulla crescita è proprio il «che cosa?». Quando si pensa alla crescita, normalmente si pensa alla crescita del Pil. E si sbaglia, perché, anche se non lo si dice mai, questa crisi è stata generata pure da una crescita sbagliata del Pil. In questi ultimi decenni, infatti, il Pil è cresciuto troppo e male, poiché è cresciuto – e cresce – a spese dell’ambiente naturale, sociale, relazionale, spirituale, alimentando l’ipertrofia della finanza speculativa. In Italia e nell’Europa in crisi, il Pil è poi cresciuto anche grazie a un abnorme aumento del debito pubblico – è troppo comodo e irresponsabile far aumentare il Pil aumentando la spesa della pubblica amministrazione.
Oggi non abbiamo alcuna garanzia che rilanciare il Pil significhi anche aumentare i posti di lavoro e il benessere delle persone, poiché se la crescita continuasse a essere guidata e drogata dalla speculazione finanziaria, e quindi dalle rendite, la vita degli italiani continuerebbe certamente a peggiorare anche con qualche punto in più di Pil. Come lo conosciamo oggi, il Pil non è né un indicatore di benessere umano in generale (e questo lo si sa), ma neanche un buon indicatore di benessere economico nell’era della finanza (e questo lo si sa meno). Se vogliamo misurare bene la buona crescita, occorre riformare il Pil e soprattutto affiancargli altri indicatori, che però – e qui sta il punto – siano indicatori di stock e non di flussi (com’è il Pil).
In quale senso? Il concetto di «Prodotto interno lordo» nasce nel Settecento in Francia (con i Fisiocratici), con l’intuizione geniale e rivoluzionaria che la forza economica di un Paese non la misurano i capitali o gli stock ma il reddito annuale (un flusso quindi), poiché un Paese non è ricco perché ha miniere, petrolio e foreste, ma solo se è capace di mettere questi capitali «a reddito», il che dipende da molti fattori (persone, tecnologia, cultura...). E da lì siamo arrivati fino al Novecento e alla nascita del Pil, continuando a pensare che per la ricchezza delle nazioni contino i flussi e non gli stock. Quella bella antica idea, però, oggi rischia di essere fuorviante.
Anche volendo lasciare un suo valore a un indicatore di flussi (un nuovo Pil), è più urgente che gli stock e i capitali ritornino a occupare il cuore della scena economica sociale e politica. Il tema ambientale, ma anche quelli relazionale e sociale – drammaticamente centrali – sono forme di stock e non di flussi, capitali accumulati durante millenni (o milioni di anni, nel caso dell’ambiente), che oggi la corsa per aumentare i flussi di reddito sta danneggiando e deteriorando.
Se vogliamo e dobbiamo rilanciare la crescita, dobbiamo allora concentrarci sulla crescita e sulla manutenzione di queste forme di capitali: se esse non venissero rafforzate, mantenute e in molti casi ricreate, i flussi economici non ripartirebbero; o, se anche ripartissero perché drogati dalla finanza o dai fondi europei, continuerebbero ad alimentare le crisi del nostro tempo.
Basterebbe soltanto pensare all’impoverimento di quegli antichi capitali civili che si chiamano relazioni di vicinato e di prossimità e di quella "coralità produttiva" dei territori che hanno generato fino a tempi recenti le tante esperienze di cooperazione e i distretti industriali del Made in Italy. Il deterioramento di questi capitali sta determinando una progressiva sterilità del nostro tessuto civile, che non è capace di generare alcun flusso, né culturale, né spirituale, né economico.
Per poter ricostruire, e presto, questi indispensabili capitali, occorre prima saperli vedere, e poi magari misurare, dando vita a nuovi misuratori di stock o, meglio, di patrimoni, parola più suggestiva perché, se intesa come
patrum-munus, cioè il dono dei padri, ci ricorda simbolicamente che questi patrimoni li abbiamo ricevuti in dono dalle generazioni passate, e quindi li dobbiamo custodire e sviluppare, se non vogliamo essere ricordati come la prima generazione ingrata della storia, quella che ha interrotto la grande catena di solidarietà intertemporale.
E questo non possiamo permettercelo anche per rilanciare, oggi, la buona crescita economica.