Con lo spot trasmesso ieri su Rai tre, nello spazio autogestito e utilizzato dall’associazione radicale 'Luca Coscioni', non ci sono più alibi né giri di parole dietro cui nascondersi, e far finta di non capire: è la legalizzazione dell’eutanasia la vera posta in gioco dell’ultima battaglia biopolitica in Italia. A onor del vero, i radicali non ne hanno mai fatto mistero: già nei giorni immediatamente successivi al fallimento del referendum sulla legge 40, avevano rilanciato la battaglia per il diritto a morire, chiamandola esplicitamente con il suo nome.Una rivendicazione che comunque ha sempre fatto parte della loro agenda politica e culturale. Ma l’eutanasia, si sa, è parola maledetta, rievoca troppo facilmente i fantasmi del nazismo, e per sdoganarla è stato necessario un percorso – non troppo lungo in verità – che ha attraversato storie personali e dolorose, abilmente imposte nel dibattito pubblico, come quelle di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, e che ha cercato di nascondersi dietro espressioni legittime e rassicuranti, come «consenso informato» e «libertà di cura». Piergiorgio Welby fin dall’inizio, nella sua lettera al presidente della Repubblica, ha chiesto l’eutanasia per sé, e anche Mina Welby, ricordandone le ultime parole, ha confermato che quella era la battaglia di suo marito. Non potendo ottenere l’eutanasia legale, Welby ha scelto una linea di condotta ai confini della legalità. Ha chiesto quindi la rinuncia alle cure, in applicazione dell’art. 32 della Costituzione, ma secondo modalità ben precise, e ha voluto che la sua morte somigliasse il più possibile ad un atto eutanasico, con un medico che eseguisse alla lettera tutte le sue dettagliate istruzioni.Con Eluana Englaro si è fatto un passo ulteriore, stabilendo che il consenso informato si può ricostruire a posteriori in base agli stili di vita, e che non serve in realtà né un consenso esplicito né un’informazione specifica. Altro che alleanza terapeutica e rapporto medico-paziente! In nome dell’autodeterminazione, per Eluana, la magistratura ha stabilito che non serve colloquio con un medico per avere informazioni precise su patologie e terapie. Insomma: se applicassimo questo concetto negli ospedali, i pazienti potrebbero rifiutare o pretendere un trattamento senza neanche parlarne con lo specialista. Anche per Eluana Englaro è stata chiamata in causa la sospensione delle cure, ma in modo del tutto improprio. Eluana Englaro è morta disidratata, dopo una sentenza che consentiva di sospenderle idratazione e alimentazione artificiale, cioè non terapie – acqua e cibo, indipendentemente dalle modalità con cui sono somministrati non curano niente – ma sostegni vitali. Se a una persona in stato vegetativo si sospendono idratazione e alimentazione, questa muore di sete e di fame, e non di stato vegetativo, così come se a una persona in stato vegetativo si sospendono igiene personale e mobilizzazione, questa muore di infezioni e di incuria, e non di stato vegetativo. Nutrizione e cura personale non sono terapie, quindi, e d’altra parte, sospendere alimentazione e idratazione a chiunque, sano o malato che sia, procura la morte, sempre. Troppo spesso il dibattito culturale e politico che è seguito a queste due tragiche vicende ha cercato di eludere il vero obiettivo, il prevedibile approdo finale, e cioè l’accettazione sociale e quindi la legalizzazione dell’eutanasia. Troppo spesso alcuni articoli della nostra Costituzione e della Convenzione di Oviedo sono stati ipocritamente usati come viatico del diritto a morire. Con lo spot di ieri, trasmesso su un canale della televisione pubblica, non ci possono più essere equivoci né zone grigie. Invocare, come fatto da alcuni, una soft law o un 'diritto debole' è una posizione che mostra tutta la sua fragilità. La battaglia in corso è quella per la legalizzazione dell’eutanasia, e ognuno deve dire chiaramente se è a favore o contro.