Non solo siete poveri – e questa è già una colpa quasi imperdonabile – ma siete pure sfaticati e disonesti, sappiatelo giovani italiani. Se poi avete pure la sfortuna di essere del Sud, allora siete senza speranza. Il tribunale di una parte del mondo imprenditoriale, della politica e dei media vi ha già condannato per un nuovo reato: scarsa attitudine a lavorare per pochi euro, aggravato da percezione di sussidio. Su alcuni giornali, il tiro al giovane sussidiato è ormai cominciato. Pare che la ripresa dell’Italia sia a rischio, perché "quelli lì" non han proprio voglia di lavorare. Ed è tutto un “signora mia, non si trova un cameriere neanche a pagarlo oro”. Figuriamoci poi un bracciante da mandare nei campi per 12 ore e retribuire con qualche buono e un po’ di frutta. E tutto per quel “maledetto” Reddito di cittadinanza che ha definitivamente rammollito la nostra gioventù già senza nerbo.
La questione è ovviamente molto più complessa e determinata da molti fattori. A cominciare da quello demografico, con il calo del numero di giovani che inizia a farsi sentire, i deficit della formazione professionale, la fuga verso l’estero dove ragazzi e giovani adulti italiani trovano condizioni migliori, lo spostamento verso altri comparti, come la grande distribuzione, la logistica e perfino l’edilizia, che anche nella pandemia hanno continuato a offrire occasioni di lavoro. Per molti, però, è più semplice puntare il dito contro il sussidio anti-povertà, che certo un effetto l’ha avuto. Quello di fissare una sorta di “salario minimo” ante-litteram.
Un minimo sotto al quale non si accetta di lavorare. Le paghe da miseria, i 400 euro al mese, i 3 o 4 euro l’ora che in una parte dei servizi erano e sono la norma non vengono più accettati. E chi basa la propria attività imprenditoriale facendo conto su questi irrisori “costi del lavoro” dovrà farsi una ragione dell’assottigliarsi dell’“esercito di riserva” disposto ad accettarli. L’altra accusa rivolta oggi ai giovani percettori di Reddito di cittadinanza è quella di chiedere di lavorare in nero per mantenere il sussidio. Facendo convergere verso l’irregolarità due convenienze: quella del datore di lavoro di pagare poco e quella del giovane sussidiato di arrotondare le entrate. Si esplicita così un problema reale, che riguarda il come far convivere alla luce del sole occupazioni temporanee e Reddito di cittadinanza, eliminando per i percettori il timore che l’assegno venga poi cancellato o peggio lo si debba restituire con sanzioni. Permettere il cumulo, invece, incentiverebbe la partecipazione al mercato del lavoro. Ma, al di là dei necessari aggiustamenti normativi, ciò che è inaccettabile è il ribaltamento delle responsabilità, come se non fossero certi imprenditori i primi a offrire lavoro irregolare e a ricavarne i maggiori vantaggi, risparmiando su paghe, imposte e contributi. Come se il “nero” in Italia fosse un effetto derivato dal contrasto alla povertà. E allora vale la pena ricordare qualche cifra di tempi non sospetti, quando ancora non esistevano né il Rdc né il suo progenitore Rei. Nel 2015 certificava l’Istat, le attività sommerse erano ammontate a 208 miliardi di euro, ben il 12,6% del Pil nazionale. Oltre un terzo di questa somma spropositata riguardava il lavoro irregolare, equivalente a oltre 3 milioni e 700mila di lavoratori a tempo pieno, per la grandissima parte costretta a subire l’irregolarità imposta dai datori di lavoro. Un triste nulla di nuovo, insomma.
I giovani fannulloni, spaesati e opportunisti ci sono. Come esistono i problemi dell’abbandono scolastico, dei Neet e pure di una subcultura del guadagno facile non sempre a norma di legge. Ma sarebbe un tragico errore cadere in una doppia criminalizzazione. Di un’intera generazione. E di uno strumento per il contrasto alla povertà, che proprio in questa pandemia si è dimostrato, ancora di più, essenziale. Perfettibile, ma indispensabile.