Caro direttore,
la classifica dei Dipartimenti di eccellenza nelle nostre Università ha riaperto una discussione, a partire dalle differenze territoriali emerse. Qualcosa non funziona proprio nelle procedure adottate: indici poco comprensibili, che hanno un impatto rilevante nei processi decisionali. Io credo che la discussione – propiziata da 'Avvenire' – non debba concentrarsi oggi solo sulla valutazione, la sua opportunità o i suoi parametri. Il problema sono in realtà le politiche con cui stiamo gestendo Università e Ricerca: la cosiddetta Legge Gelmini (240/2010), il meno conosciuto Decreto legislativo 49/12 (che governa la distribuzione di risorse e assunzioni) e i Decreti ministeriali sul Fondo di Finanziamento Ordinario. I risultati della 'Valutazione della qualità della ricerca' ( Vqr), alla base di questa classifica, sono infatti sempre più usati per ripartire una quota rilevante dei finanziamenti ordinari e soprattutto i piani di assunzione degli ultimi anni.
Qui non stiamo disquisendo in astratto sulla qualità della ricerca italiana, o su come attribuire risorse premiali (come potrebbero essere intese quelle dei Dipartimenti di eccellenza), ma stiamo parlando dei parametri rispetto ai quali si assegnano fondi essenziali per il funzionamento ordinario degli atenei, su ricerca e didattica (a partire dal rapporto docenti-studenti, uno dei più alti in Europa). Il cronico sottofinanziamento dell’Università non è superato: la stessa relazione tecnica alla legge di Bilancio 2022, proprio quando sottolinea la positiva novità di un piano per 7-8mila posizioni aggiuntive, riconosce che mancano 40mila docenti di ruolo rispetto alle altre realtà europee. Nonostante le nuove risorse e nonostante il Pnrr (che agisce su settori limitati, con specifici progetti e personale precario), molti atenei fanno ancora fatica a far quadrare i propri conti ordinari: ad esempio, al di là dell’inflazione e dei costi energetici, faticheranno a trovar spazio ai prossimi aumenti contrattuali, comunque dovuti (anche per questo si rischia che riparta una nuova ondata di aumenti delle tasse, unico vero collettore immediato di risorse).
Il sistema universitario non è collassato. Neanche nel Mezzogiorno, nonostante così possa apparire da questi indici. Però si è logorato. Alla base vi è stata la scelta, in controtendenza, di affrontare la Grande Recessione che ha tagliato la spesa su istruzione e ricerca, distribuendo poi le scarse risorse sempre più con logiche premiali, con un inevitabile effetto San Matteo (gli atenei forti hanno ottenuto sempre più fondi, quelli più deboli sempre meno). Secondo uno studio Flc, tra il 2009 ed il 2018 gli atenei del Sud e delle Isole hanno registrato un calo nelle assunzioni di oltre il 60%, quelli del Nord della metà. A esser colpiti, cioè, sono stati gli atenei in aree difficili, che non hanno potuto contare sulle proprie reti territoriali (fondazioni bancarie e istituzioni locali in primis). Ne vediamo le conseguenze anche da Almalaurea, con il progressivo calo delle iscrizioni al Sud. Questa politica non è solo iniqua, ma allarga le divergenze sociali e territoriali del nostro Paese. Da una parte l’Università diventa un moltiplicatore di diseguaglianze, dall’altra lo stesso sistema universitario viene messo in tensione (con le conseguenti richieste di superarlo, differenziando le autonomie nel quadro e oltre il quadro della Legge 240). Questa tendenza mina allora un modello, come quello italiano, che è basato proprio sulla sua qualità diffusa, sulla sua omogeneità, senza divisioni tra didattica e ricerca (come ha ricordato, ancora su 'Avvenire', Paolo Liverani e come si vede anche in controluce nei pur discutibili ranking internazionali, dove forse emergono poche eccellenze, ma entra una quota rilevante, quasi unica, dei nostri atenei). Lo abbiamo segnalato qualche mese fa, prima, e poi insieme al Cun, sulla revisione degli ordinamenti didattici. Lo ribadiamo oggi. Il punto non è osteggiare la valutazione o affinare un indicatore: è segnare una svolta nelle politiche, rilanciare il sistema nazionale, investire sull’insieme dell’Università e sul suo finanziamento ordinario, per tenere insieme società e futuro di questo Paese.
Segretario generale Flc Cgil