Non adesso, non così. Il progetto sull’autonomia differenziata che ha spaccato la maggioranza settimana scorsa è diventato una priorità dell’azione di governo probabilmente nel momento storico sbagliato, seguendo un percorso a ostacoli che dimostra quanto sia stata appropriata, alla fine, la decisione del presidente del Consiglio Conte di soprassedere, per il momento, ponderando bene scelte e contenuti del provvedimento.
Rispetto alla devolution di bossiana memoria, la Lega, il partito che più si è mobilitato nella Seconda Repubblica su questo tema, ha provato a invertire l’ordine dei fattori, ma il risultato non è cambiato: nulla di fatto, almeno per ora. Nel 2006 la consultazione referendaria era stata l’atto conclusivo (e la pietra tombale) del progetto federale portato avanti dal Carroccio delle origini, sancito dalla riforma costituzionale varata dal centrodestra e bocciato dai cittadini; adesso il referendum consultivo del 2017 che aveva spinto Veneto e Lombardia a rilanciare questo cavallo di battaglia chiamando a raccolta "prima" i cittadini delle due Regioni, ha rappresentato l’avvio di un percorso. Si puntava a chiedere più poteri su materie cruciali, ma il piano si è arenato per lo stop imposto dall’alleato di governo, il Movimento 5 Stelle. Di uguale, nei confronti del passato, è rimasta la voglia di accelerare del cosiddetto Lombardo-Veneto (più del Veneto che della Lombardia, a dir la verità) mentre anche il Pd è sceso in campo, in Emilia-Romagna, portando avanti un progetto che punta a una svolta più soft, soprattutto in materia d’istruzione e formazione professionale. Il resto d’Italia, che a lungo ha guardato con indifferenza a questi processi, ora sembra aver preso a pretesto questa vicenda per scatenare una "guerra di territorio": vale soprattutto per il Sud, dove i governatori di quelle Regioni, con toni e aspettative diverse, vorrebbero declinare l’argomento dell’autonomia come un’occasione per aprire una vertenza sullo strapotere economico e nella dotazione infrastrutturale del Nord.
Questo dimostra che tempi e modi del "cambiamento" regionalista proposto finora sono sbagliati. Innanzitutto, è mutato il contesto storico in cui ci troviamo a discutere di "regionalismo differenziato". Da un anno a questa parte, tutti gli indicatori socio-economici raccontano con intensità senza precedenti di un Paese spaccato in due, con una forbice destinata ad allargarsi senza l’urgente avvio di politiche di perequazione territoriale. Scuola e sanità, due (cruciali) materie delle ventitré rispetto alle quali in Veneto e Lombardia si è chiesta più autonomia, sono i terreni su cui le disuguaglianze sono più forti: dalla qualità della formazione e dell’insegnamento (come hanno dimostrato gli ultimi dati Invalsi) alla presenza del personale docente fino a formule come il tempo pieno (al Sud solo per un alunno su sei) è innegabile che sul pianeta istruzione si stia procedendo in Italia a velocità diverse a seconda della latitudine. Con nuovi interrogativi aperti dal provvedimento in discussione, a partire dalle cosiddette "gabbie salariali": i professori diventeranno o no dipendenti regionali? Saranno pagati di più? E se sì, con quali risorse? Se ci si sposta dalle aule alle corsie d’ospedale, la situazione non cambia, basti pensare ai tanti "viaggi della speranza" già fatti da molte famiglie del Mezzogiorno verso il Settentrione, in cerca di cure e assistenza ospedaliera migliori.
Si corre perciò il rischio di incentivare ancora di più fenomeni di mobilità da territori già penalizzati a territori con servizi eccellenti, impoverendo i primi e contribuendo al loro progressivo isolamento. Senza dimenticare che ciò favorirebbe alcune fasce di reddito, a discapito delle altre.Chi si è spinto, in questi mesi, a parlare di 'secessione dolce' o 'secessione dei ricchi', probabilmente, immaginava le ricadute che un disegno non condiviso potrebbe avere sul sistema Paese. In Spagna si è cominciato con i Paesi Baschi, si è proseguito con la Catalogna e ancora oggi non si sa dove si andrà a finire. Forse bisognerebbe ricalibrare bene parole e intenzioni, per evitare… egoismi differenziati e potenzialmente esplosivi. Ciò non vuol dire affatto che il consenso registrato dai referendum del Nord a favore di un 'regionalismo spinto', peraltro condiviso anche da una parte dell’opposizione, debba essere archiviato. Significa, al contrario, che è necessario aprire una grande discussione nel Paese su questo tema, all’insegna della massima chiarezza e trasparenza, coinvolgendo innanzitutto il Parlamento, per troppo tempo tenuto all’oscuro di una riforma troppo importante per essere esaminata e decisa in 'segrete stanze'. Nell’Appunto di dodici pagine redatto un mese fa dal Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio, si sottolineava tra l’altro come fosse «irragionevole » pretendere che la proposta di «regionalismo differenziato» venisse ritenuta soltanto una formalità, tanto più se si considera «il ruolo centralissimo che la Costituzione assegna alle Camere». C’è spazio e tempo per negoziare ancora, coinvolgendo anche chi non ha partecipato alle precedenti consultazioni e valutando bene i passi possibili e utili. Senza fughe in avanti.