Autocrazie spezza-sviluppo
venerdì 5 aprile 2019

Pochi giorni fa si sono svolte le elezioni amministrative in Turchia e il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan è uscito sconfitto in molte delle città chiave del Paese. Le profonde difficoltà economiche che sta vivendo la popolazione turca hanno cominciato a declinare i propri effetti sulla stabilità politica. Nel 2019 il tasso di crescita del Pil supererà di poco lo 0,3%. Se si guarda solo a pochi anni fa il declino dell’economia è più che evidente: il tasso di disoccupazione era al 9% nel 2011 e arriverà al 12,3% nel 2019, gli investimenti nel 2011 superavano il 31% del Pil e saranno al 26% nel 2019. L’indice al consumo dei prezzi è quasi raddoppiato tra il 2011 e il 2018 e il tasso di inflazione ha superato il 15% nel 2018 (era al 6,5 nel 2011). Inoltre, il tasso di interesse di riferimento della Banca centrale che era all’8% nel gennaio del 2014 è arrivato al 22,5%, ma tale aumento non sta evitando la fuga dei capitali all’estero. Ancora più preoccupante è che nello stesso periodo le riserve ufficiali siano diminuite del 25% circa.

Il fallimento della Erdoganomics conferma ancora una volta una regola dimostratasi più volte vera nella storia, vale a dire che i sistemi politici autoritari, o che inclinano verso tale condizione, non favoriscono lo sviluppo economico. Nel caso turco, infatti, tutti gli osservatori erano concordi nel dire che il regime di Erdogan stesse evolvendo sempre più in senso autoritario, ma un numero decisamente minore di questi ne prevedeva la disfatta in ambito economico («Le gambe molli dell’autocrate Erdogan», "Avvenire" del 16 marzo 2017). Nelle classi dirigenti, infatti, ancora si subisce il fascino dell’uomo forte, del dittatore in grado di garantire oltre alla stabilità e alla sicurezza un percorso di sviluppo economico. Il declino economico della Turchia di Erdogan conferma ancor a una volta la fallacia di questa convinzione.

Cosa farà il presidente turco a questo punto? Dal punto di vista economico si continuerà a scommettere sulla strategia di svalutazione competitiva della lira turca già in corso, sperando che questa riesca a non far crollare le esportazioni. In secondo luogo, alcune voci della spesa pubblica continueranno ad aumentare con l’obiettivo di mitigare il malcontento popolare. Queste misure non potranno, però, far cambiar rotta all’economia turca. E le difficoltà economiche continueranno ad avere effetti non solo all’interno, ma anche sulla politica estera. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, infatti, l’autocrate in difficoltà spesso diviene aggressivo e spregiudicato nei confronti degli altri Paesi al fine di distrarre la popolazione dai fallimenti economici interni.

Questo tipo di strategia completa, peraltro, anche quelle utilizzata per giustificare le recessioni indotte da politiche economiche sbagliate. Infatti, agli entusiasmi iniziali – sovente accolti e propagandati trionfalmente – in pochi anni si sostituiscono i richiami al sacrificio e al rigore, a volte anche 'arricchiti' da accuse di complotti internazionali. Nel caso di Erdogan, non si possono non ricordare la ricorrente aggressività in merito alla questione curda e le accuse agli Stati Uniti e all’Occidente di portare avanti una «guerra economica» contro la Turchia.

A ulteriore conferma della spregiudicatezza di tale strategia 'di rottura', nel contempo Erdogan ha deciso di mettere radicalmente in questione le alleanze tradizionali. E, così, il percorso di allontanamento dalla Nato si è fatto sempre più evidente. La cooperazione con Russia e Iran è andata rafforzandosi, e nel momento in cui il governo turco ha deciso di acquisire un sofisticato sistema di difesa aereo di produzione russa sembra che si sia oramai superato il punto di non ritorno. In seguito a tale decisione, gli Stati Uniti hanno bloccato la consegna di materiali ed equipaggiamento del programma F35 a cui la Turchia aveva aderito. Quest’ultima decisione è particolarmente significativa in virtù del fatto che il governo turco non è un semplice acquirente degli F35, ma è un partner industriale.

La rottura diplomatica definitiva con i partner occidentali è quindi dietro l’angolo. Questa non farà altro che acuire e aggravare la recessione economica in corso e, quindi, i fattori interni di crisi sociale e politica andranno moltiplicandosi. Erdogan e il suo governo hanno ancora la possibilità di risparmiare una crisi ancora più profonda alla popolazione turca 'aggiustando' in corsa alcune scelte politiche interne ed esterne. Perché ciò avvenga, però, è necessario che si ristabilisca un clima di fiducia con la comunità internazionale e i tradizionali alleati. Al momento, purtroppo, questa possibilità di riconciliazione non sembra all’ordine del giorno.

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