Gentile direttore,
la storia drammatica di Archie Battersbee sta giungendo al suo inesorabile epilogo: il suo best interest, il «miglior interesse». Ancora una volta l’Alta Corte di Giustizia inglese si è pronunciata sul sottilissimo crinale della vita e della morte di un bambino. Lo aveva già fatto in passato nei casi di Charlie Gard, di Alfie Evans, di Isaiah Haastrup e di Tafida Raqeed. La storia, pur sempre diversa, si ripete.
Archie è già vittima della sfida del blackout challenge online, un gioco atroce che lo ha portato a sfidare il soffocamento fino a rimanerne succube con una «probabile morte cerebrale» diagnosticata dai medici del Royal London Hospital dove è ricoverato. Oggi potremmo dire che Archie è di nuovo vittima di una sentenza di una Corte d’Appello inglese. Il "miglior interesse" di Archie, dodici anni, è morire, piuttosto che vivere in condizioni cliniche in cui il trattamento sanitario è giudicato «futile » e capace di compromettere la sua dignità. La medicina, insomma, riuscirebbe solo a prolungare la sua morte, non a prolungare la sua vita, sentenzia la Corte Suprema. Il rischio che si corre è altissimo. A colpi di sentenza si selezionano vite meritevoli di continuare ad esistere e vite da cestinare, con l’immancabile e contrito mea culpa, per doveroso rispetto delle vittime e per un po’ di pubblica decenza. La vita di Archie non avrebbe più nessuna dignità perché non migliorabile e, pur essendo curabile, non guaribile. La vita di un bimbo, che pure continua a stringere le mani dei genitori – come riferisce sua mamma – e che non è in pericolo di morte, secondo la giustizia inglese non è degna di essere vissuta perché la malattia grave la rende inutile.
Archie potrebbe continuare a vivere con il supporto della ventilazione meccanica, come tanti bambini in cura all’Ospedale Bambino Gesù. Archie potrebbe sorprenderci ed essere capace di smuovere i sentimenti di chi si accostasse al suo lettino. Sono questi i segni clinici che denunciano l’esistenza di una vita umana, i parametri vitali che rendono dignitosa l’esistenza di un dodicenne. La malattia non svilisce e non ammutolisce la vita della persona, che pure in caso di malattie gravi e irreversibili ha ancora un racconto da consegnare.
La storia di Archie non dovrebbe essere un punto di arrivo, ma il punto di partenza per una più consapevole civiltà nella nostra società post-moderna. Mi domando, in nome di quali criteri una società possa essere considerata "civile": per la capacità di definire il limite della vita e della morte di un dodicenne? In nome della libertà di porre fine alla vita propria o altrui solo perché al di sotto dei comuni standard di autonomia? Davvero pericoloso.
Se lo Stato, persino contro il volere dei familiari della persona, può decretare la morte di un suo cittadino fragile, tanto più di un dodicenne, i rischi della deriva eugenetica e della «società tanatologica» – come ripeteva Elio Sgreccia, studioso e cardinale – sono altissimi. Deliberare la morte di una persona imponendo a medici e personale sanitario di interrompere il trattamento sanitario, è contro la deontologia della professione medica. Non c’è civiltà nella sentenza che decreta la morte di un bimbo che i genitori vorrebbero rimanesse ancora in famiglia e possibilmente, con i giusti supporti, anche nella propria casa. Solo una società che sa prendersi cura delle proprie fragilità, potrà dirsi una società avanzata, civile e veramente umana.
Archie non è una tomba chiusa, ma un sepolcro aperto su cui costruire una società migliore. Archie è una nuova vita in precario equilibrio sul crinale dell’esistenza umana che segna il passo della civiltà e della prossimità. Da fragilità come la sua si dovrebbe partire per edificare una comunità solidale, che sappia accogliere le proprie debolezze, chinarsi sul dolore con umana misericordia e averne compassione. Sì, la compassione ci renderà sempre più umani e solidali. Con la compassione, la capacità di sentire insieme, sapremo leggere con lucidità il miglior interesse di Archie. Mai più far morire per best interest.
Comunità Papa Giovanni XXIII