Il 15 agosto si è chiusa, pressoché inosservata, la finestra per la regolarizzazione degli immigrati che avevano trovato lavoro in agricoltura e nei servizi domestici. Gli ultimi dati disponibili (fine luglio) hanno dato riscontro di circa 150mila domande, che nelle ultime due settimane potrebbero aver superato quota 200mila.
Dagli opposti spalti questi dati hanno alimentato giudizi drastici ma convergenti, all’insegna del "flop della sanatoria". Cerchiamo di comprendere con più precisione com’è andata effettivamente. Se lo scopo della manovra di emersione era davvero quello di procurare braccia (legali) alle campagne di raccolta dei prodotti agricoli, sarebbe difficile ora dare torto alle voci critiche: fin dalle prime settimane dal varo del provvedimento, era apparso evidente che le domande relative al lavoro agricolo rappresentavano una netta minoranza del totale: meno di 20mila al 31 luglio. Del resto, prima ancora della travagliata definizione del decreto governativo, le organizzazioni del settore agricolo avevano fatto sapere che la sanatoria non avrebbe risolto i loro problemi di reperimento di manodopera. Difficile pensare, si può aggiungere, che imprenditori interessati ad assumere braccianti solo per alcune settimane si facessero carico dei costi non indifferenti relativi alla procedura di emersione. Come costoro abbiano risolto il problema della manodopera non è stato chiarito, ma le inchieste di questo giornale sulle perduranti irregolarità qualche risposta l’hanno fornita...
Se invece si pensava che la sanatoria avrebbe svuotato il bacino dell’immigrazione irregolare, la stessa concezione del decreto smentiva in partenza questa speranza. Frutto di un travagliato compromesso tra forze politiche che sull’immigrazione mantengono concezioni contrastanti, soffriva di almeno due limiti. Anzitutto, ricalcava l’impostazione delle regolarizzazioni italiane: per vedere legalizzato il proprio soggiorno in Italia un immigrato irregolare non solo deve aver trovato un lavoro, ma anche un datore di lavoro disposto ad assumerlo ufficialmente. La regolarizzazione non è una scelta di tutela delle persone che lavorano, e neppure un punto di convenienza reciproca, ma una facoltà concessa ai datori di lavoro. Persino in tempi di Covid, quando avrebbe avuto senso far emergere tutti i presenti per poterli monitorare. Abusi, ricatti, ricorso a datori di lavoro fittizi, non sono altro che la conseguenza perversa di questa impostazione.
Il secondo limite si riferiva alla scelta difficilmente giustificabile di ammettere solo i lavoratori di alcuni settori, sostanzialmente agricoltura e servizi alle famiglie, bocciando tutti gli altri: addetti alle pulizie o fattorini che avevano lavorato per assicurare servizi essenziali durante il Covid sono stati deliberatamente esclusi, tranne coloro che sono riusciti a travestirsi da collaboratori domestici trovando un datore di lavoro compiacente. L’unico scopo di una siffatta limitazione era quello di soddisfare la pretesa del M5s di non regolarizzare troppi immigrati. Si può dire che i grillini hanno raggiunto il loro obiettivo, ma ci erano già riusciti in sede di scrittura del decreto. Sostenere che la sanatoria è fallita perché non ha legalizzato i 600mila immigrati irregolari conteggiati da stime tanto enfatiche quanto fragili, è dunque poco sensato. La sanatoria non aveva affatto l’obiettivo di sradicare e portare alla luce del sole il lavoro irregolare di tanti immigrati o tout court l’immigrazione irregolare. Una valutazione diversa e più equilibrata della misura di emersione potrebbe tuttavia farsi strada, tra i fumogeni delle polemiche e delle pur legittime delusioni.
La carenza di braccia per l’agricoltura ha rappresentato la leva politica per realizzare, in tempi di Covid, una manovra che ha conferito uno status legale (probabilmente) a circa 200mila persone, dando loro la possibilità di costruirsi un futuro nel nostro Paese: un risultato pressoché insperabile, da parte di un governo diviso e di un Parlamento largamente ostile agli immigrati. Un risultato simile non si è realizzato in nessun paese della Ue, tranne in qualche misura in Portogallo. Non è dato sapere se la ministra Bellanova ha agito in modo strategico, usando l’argomento della manodopera agricola per arrivare a questo risultato, ma di fatto l’ha conseguito. Ora viene però una fase altrettanto difficile: accompagnare sulla strada dell’integrazione sociale le persone salvate dalla palude dell’illegalità. Qui le leggi non bastano, ma occorre il concorso di tutti.