Se il male può essere il frutto banale della dimenticanza di sé, della propria memoria e delle proprie radici, come scriveva giusto una cinquantina di anni fa Hannah Arendt commentando il processo del criminale nazista Adolf Eichmann, la prima ovvia lezione della tragedia americana di Newtown non può che essere una: impedire di rendere ancor più 'semplice' l’attuazione del male, evitando che circolino liberamente i mezzi per compierlo. Abolendo, quindi, la possibilità di vendere e di acquistare con irrisoria facilità armi micidiali, come quelle che la sfortunata madre del Connecticut collezionava nella sua abitazione, insegnandone personalmente l’uso a quel figlio che l’avrebbe poi uccisa assieme ad altri 27 innocenti. Negli Stati Uniti del terzo millennio questa elementare considerazione fatica ad affermarsi, per ragioni storiche, psicologiche e commerciali analizzate un’infinità di volte. Sempre senza esito.
Ma il male, compreso quello più assurdo e apparentemente incomprensibile, non è sempre e soltanto conseguenza di circostanze, più o meno banali, 'esterne' all’uomo e consentite dai codici sociali delle comunità nelle quali si manifesta. La violenza selvaggia e devastante riesce ad affermarsi anche là dove vigono rigide regole proibizioniste in materia di difesa personale.
C’è quindi un livello più profondo di analisi dei 'perché' e di ricerca del 'che fare', al quale occorre sforzarsi di accedere. Nello stesso giorno in cui si è consumata la strage dei bambini, Benedetto XVI ha offerto all’attenzione del mondo, con il messaggio per la Giornata mondiale della pace, un contributo formidabile alla comprensione di un evento da lui stesso definito ieri, in un dolente messaggio di cordoglio, «insensato» e «scioccante».
Il Papa ha invitato «le varie culture» del nostro tempo – tutte, quindi, a partire da quelle secolarizzate e iperindividualiste del postcristianesimo d’Occidente – a interrogarsi nuovamente su quale idea esse coltivino dell’uomo, del suo destino e del suo mettersi in rapporto con gli altri esseri umani, vicini e lontani da lui. Sono le domande chiave sull’antropologia, dalle quali non si può sfuggire e che non possono essere aggirate da accorgimenti legislativi, per quanto raffinati siano. Possiamo testimoniarlo anche noi italiani, ai quali quarant’anni fa promisero, con il varo del divorzio, niente meno che la fine delle liti brutali e delle violenze in famiglia e che oggi ci ritroviamo ad aggiornare, a ritmi sempre più incalzanti, la contabilità delle vittime del cosiddetto 'amore criminale'. Il faro acceso nel messaggio sui rischi del soggettivismo e del relativismo morale portati all’estremo può essere davvero prezioso. Le cronache d’Oltreoceano indugiano nel descrivere la personalità chiusa, ai limiti dell’autismo, del giovane omicida- suicida. E non è forse un incentivo a una sorta di 'autismo etico' – tanto sottile quanto efficace – quello che offrono le società contemporanee, quando diffondo il 'verbo' della soddisfazione a tutti i costi di ogni desiderio o quando sanciscono con il crisma del diritto assoluto la possibilità di disporre della vita propria e altrui?
È probabile che, nei prossimi giorni, l’attenzione dei mass media si concentrerà ancora molto sull’impatto che la tragedia avrà nei confronti della tranquilla cittadina del New England, funestata nei dieci anni precedenti da un solo altro omicidio. Si continuerà a indagare e a interrogare i suoi sbigottiti abitanti sulle possibili cause dell’impulso che ha scatenato la furia di Adam Lanza. Sarebbe invero utile, anche se irrealizzabile, esplorare la qualità delle relazioni sociali in cui il giovane è cresciuto, valutare il sedimentarsi dei valori e dei modelli esistenziali proposti alle generazioni emergenti, in quella come nelle tante Newtown, sia dell’America che della nostra vecchia Europa. Si scoprirebbe forse che a mancare è stata soprattutto l’offerta di senso: materiale chiave per costruire città realmente nuove, nelle quali abbiano stabile dimora la giustizia e la pace.