Due debolezze non fanno una forza. Peggio se esse sono al loro interno divise in 3 o 4 parti senza che riescano a sviluppare, prima ancora di un’azione unitaria e coerente, un’idea forte e condivisa fra le diverse componenti. È ciò che viene spontaneo pensare di fronte alle manifestazioni dei sindacati e insieme al faticosissimo iter della Legge di Bilancio. Perché a fronte di una complessità sempre maggiore della società, dello sviluppo delle tecnologie e dei mercati, ciò che si mostra in tutta evidenza non è solo e tanto una crisi di azione, quanto soprattutto di progetto. E prima ancora di pensiero. Il che è decisamente più grave e maggiormente preoccupante.
Cgil, Cisl e Uil, infatti, sono scese giustamente in piazza per contrastare l’ondata di esuberi annunciata tanto nella manifattura quanto nel settore dei servizi. E sollecitare al Governo un piano economico e una politica industriale che diano risposta alle crisi e sostengano lo sviluppo. Non basta, infatti – come ha sottolineato ieri dal palco a Roma Annamaria Furlan – che da parte dell’esecutivo sia cambiato il modo di trattare le parti sociali, che si tengano più incontri e che ci sia maggiore ascolto reciproco, se poi non arrivano fatti conseguenti. «Non abbiamo bisogno di gentilezze ma di risposte, in un anno non è cambiato nulla», ha chiosato la leader della Cisl. Quasi in stereofonia con il presidente degli industriali milanesi, Carlo Bonomi, per il quale «le priorità espresse dal governo – futuro, donne, giovani, lavoro – vanno bene, siamo d’accordo». Solo che poi «vorremmo fossero seri nell’applicarle e invece...».
E invece... anche volendo lasciar da parte la complessa e assai particolare vicenda Ilva, non una delle crisi industriali esplose nell’ultimo anno è stata portata a soluzione dalla mediazione di questo e del passato esecutivo. A cominciare da Alitalia per la quale sono stati letteralmente bruciati nei motori d’aereo centinaia di milioni senza che neppure si sia fatto un metro di pista avanti verso il salvataggio e il (ri)decollo della compagnia (anzi, il valore della società sta precipitando). Peggio se ci si ferma a considerare la Manovra 2020 che, in maniera quantomai faticosa, si va delineando.
Per modo di dire. Perché di giorno in giorno, di vertice in vertice di maggioranza, non si sta delineando nulla. Impossibile capire – oggi – quale sia l’'anima' della Legge di Bilancio approdata alla discussione in Parlamento: contenimento della spesa pubblica no; risanamento dei conti neppure; lotta all’evasione un po’; sostegno ai redditi e alle famiglie sì ma col contagocce; new green deal promesso all’inizio perso tra microtasse e rinvii... Manovra senz’anima, appunto.
E nemmeno bella. Solo complicata. Certo, complicato era il quadro di partenza l’estate scorsa e a questa maggioranza giallo-rossa andranno riconosciuti comunque tre grandi e importanti risultati: aver evitato per un anno l’incremento delle aliquote Iva; aver aumentato solo in parte il deficit pubblico, ma soprattutto aver evitato l’uscita di fatto dell’Italia dall’euro e dall’Unione Europea. Non è certo poco. Ma non è abbastanza per andare avanti.
E infatti stiamo andando indietro: in termini di Pil, produzione, export, occupazione. Pesa, inutile dirlo, la divisione interna di questa strana maggioranza, più necessitata che desiderata dai partiti che la compongono. E nella quale, ai già complicati rapporti tra M5s e Pd, si è aggiunta la scissione di Italia Viva che non manca occasione per distinguersi. Da parte loro, non è che i sindacati abbiano le idee più chiare o siano maggiormente coesi. Decisamente attestati nella difesa dello statu quo, sono pronti ad armarsi fino ai denti se si tratta di strappare qualcosa per i pensionati che rappresentano la metà dei loro iscritti, ma appaiono timidi e delicati come mammolette nel rivendicare i diritti dei giovani o schierarsi a fianco delle famiglie con figli.
Nelle aziende firmano molti patti difensivi assai utili e begli accordi di welfare aziendale. Il più delle volte, però, senza entrare nella contrattazione delle nuove modalità di organizzazione delle imprese. E così rischiano di risultare irrilevanti nei processi di trasformazione, se non per raccogliere i cocci di crisi e ristrutturazioni. È così, ad esempio, nelle banche: sindacati e grandi istituti hanno costruito un eccezionale fondo per gli esuberi, ma poco o nulla per far sì che quei lavoratori fossero diversamente formati e re-impiegati, mentre troppe banche paiono più interessate ai dividendi che alla loro responsabilità sociale. Mancano le strategie e le idee non sono chiare, se il leader del più grande sindacato nel proporre al Governo un nuovo 'Patto per il lavoro' dimentica le altre Confederazioni e parte con l’abolizione delle riforme del lavoro successive allo Statuto dei lavoratori.
Quello del 1970. Con tutto il rispetto, è difficile considerarlo un apporto innovativo. Un po’ come la vecchia battaglia alla morte (del contratto nazionale) perché alla Fiat di Pomigliano non cambiasse nulla (e pazienza se così non si sarebbe salvata). Oltre alla statalizzazione, in sintonia con i 5stelle, la Cgil di Maurizio Landini fin dove è pronta a spingersi? Il premier Giuseppe Conte, ieri sera, ha invitato tutti a marciare insieme. Giusto, ma verso dove? Ecco, magari, visto che tanto ormai siamo in ritardo e il treno dello sviluppo per quest’anno è partito senza di noi, fermiamoci qualche giorno per riflettere e chiarirci le idee. Dove vogliamo andare? Perché per imboccare la strada giusta verso il futuro, desiderarla o rivendicarla non è sufficiente. Occorre prima individuarla e poi percorrerla con decisione.