Il nuovo governo ha correttamente posto tra i temi all’ordine del giorno quello del 'tagliando' e della revisione del Reddito di cittadinanza istituendo un’apposita commissione presieduta da Chiara Saraceno. Per inquadrare la questione nella prospettiva corretta dobbiamo sottrarla alla polemica politica e partire dall’assunto che redditi minimi contro la povertà esistono in pressoché tutti i Paesi europei e da sempre nel dibattito scientifico il problema è quello di riuscire a separare il loro impatto sulla riduzione della povertà da effetti collaterali indesiderati come quelli dell’abuso della misura e del disincentivo alla ricerca di lavoro. Le questioni discusse in questi ultimi mesi sono molte.
Una prima è come disegnare una 'dote' ottimale che incentivi i percettori a entrare nel mercato del lavoro e le aziende ad assumerli: in molte esperienze in giro per il mondo, ai fini di quest’obiettivo, accettare un lavoro non comporta, infatti, la perdita immediata di tutto il reddito di cittadinanza. Altre questioni importanti riguardano la costruzione della soglia di povertà di riferimento sotto la quale scatta l’erogazione del reddito e la definizione della platea di beneficiari. L’Istat stesso definisce ufficialmente soglie di povertà che variano al variare della dimensione del nucleo familiare, dell’area geografica e della dimensione del Comune di residenza tenendo correttamente conto che queste tre variabili incidono in modo sostanziale sul valore del paniere di beni necessari al di sotto del quale si cade in povertà assoluta.
Una soglia unica per delimitare l’area dei beneficiari contraddice la stessa definizione dell’Istat che prevede livelli sensibilmente diversi tra Nord e Sud del Paese. L’attuale soglia inoltre sottostima la povertà nei nuclei familiari numerosi usando scale di equivalenza più severe di quelle ad esempio utilizzate per calcolare l’Isee (indicatore della situazione economica equivalente). Una misura 'efficiente' di Rdc deve perciò proporsi di minimizzare sia gli errori del primo tipo (classificare come poveri coloro che non lo sono) sia quelli del secondo tipo (non identificare come poveri coloro che lo sono). Su questo punto ovvio, ma sinora non scontato, il progresso nella qualità dell’informazione e negli incroci delle banche dati dovrebbe consentire progressivamente di ridurre il problema in modo significativo. Sullo sfondo, assieme a questi punti specifici, restano due grandi questioni generali. La prima è il costo-opportunità del Reddito di cittadinanza in termini di impiego di risorse pubbliche.
Ci sono tanti obiettivi di valore sociale e le risorse non sono purtroppo infinite e vanno allocate alle destinazioni più preziose: quanto vale un euro investito in Reddito di cittadinanza rispetto a un euro investito in sanità, istruzione, infrastrutture? Se è vero che la 'produttività' delle risorse impiegate aiuta a liberare e creare altre risorse è altrettanto vero che la qualità di una società si vede da come ci occupiamo degli ultimi e i soldi del Reddito di cittadinanza sono per loro.
Una via ideale per risolvere questo dilemma consiste nell’impiegare le risorse destinate al Reddito di cittadinanza in modo tale da massimizzare la possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro. Per raggiungere quest’obiettivo sono importanti formazione, accompagnamento, ma anche progetti trasversali come quelli legati ai lavori civici e alla nascita di una rete di 'angeli della salute' che può mettere in connessione anziani soli e sistema sanitario. In questo modo, l’obiettivo materiale ed economico e quello del ben-vivere coinciderebbero.
Sappiamo ormai benissimo che la soddisfazione e la ricchezza di senso di vivere dipendono da una componente principale che chiamiamo generatività, ovvero dalla capacità delle nostre vite di poter contribuire positivamente alla comunità e al ben-vivere di altri nostri simili. Proprio per questo facciamo il bene dei percettori del Reddito di cittadinanza se non ci limitiamo alla rete di protezione economica, ma la trasformiamo in occasione per rimettersi in moto e per riacquisire dignità che vuol dire sentirsi nuovamente utili e capaci di contribuire col proprio lavoro alla vita del Paese.