Agli italiani servirebbe un «recurso de amparo»
giovedì 14 febbraio 2019

Avviato con modalità talora persino più sconcertanti di quanto si potesse temere, va avanti lo sgombero dei Cara (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo). Nel frattempo, a seguito dei ricorsi di talune Regioni, si sta incanalando lungo l’unica strada al momento percorribile il tentativo di portare al giudizio della Corte costituzionale le non poche contestazioni che quella legge ha suscitato sin da subito: né i privati né quegli stessi amministratori che pure per primi hanno sollevato i problemi sino ad annunciare gesti di disobbedienza civile possono infatti rivolgersi direttamente alla Consulta. Così stando le cose, però, la Corte costituzionale deve limitarsi a constatare se, con la legge di cui si discute, sono state invase le competenze regionali, e solo per tal via potrà giungere a una sentenza dichiarativa di più o meno larga incostituzionalità delle norme contestate: non per nulla, il presidente della Regione Piemonte, spiegando il perché del suo ricorso, ha messo l’accento su un effetto soltanto indiretto del testo votato dalla maggioranza gialloverde, sottolineando che esso, «impedendo il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, avrà ripercussioni sulla gestione dei servizi sanitari e assistenziali, di nostra competenza, che la Regione ha finora erogato ai migranti interessati». È dunque lungo una via piuttosto stretta che si è dovuta instradare la questione della compatibilità tra certe norme di quel testo e taluni princìpi di grande spessore e di amplissima portata, come quelli di umanità e di non discriminazione.

Con particolare evidenza, viene perciò a riproporsi un interrogativo non nuovo, ma sempre rimasto sottotraccia: perché, in Italia, chi si ritenga leso in uno o più diritti fondamentali non può ricorrere direttamente alla Corte costituzionale? Perché, insomma, non funziona qualcosa come il recurso de amparo (ricorso di tutela) operante in Spagna, oltre che in diversi Paesi dell’America latina, o la tedesca Verfassungsbeschwerde (reclamo costituzionale)? La risposta è facile e immediata. Da noi si è sempre temuto che la proverbiale litigiosità degli italiani facesse sommergere la Corte sotto le ondate di iniziative stravaganti o comunque non pertinenti rispetto al ruolo che le compete, che è quello, non di riparatore di ogni possibile ingiustizia (vera o presunta) ma di supremo custode della legalità costituzionale: ecco perché – a parte, appunto, il caso dei ricorsi nel limitato campo dei rapporti Stato-regioni – la possibilità di rivolgersi alla Consulta è rigorosamente riservata al giudice, ordinario o amministrativo, il quale, nel corso di un processo, ritenga che una questione di legittimità costituzionale, proposta da lui stesso o da qualcuna delle parti, sia «non manifestamente infondata» e «rilevante» per il giudizio che gli compete.

Quel timore ha un suo fondamento, ma forse è stato sopravvalutato, anche perché non si è mai messo in discussione che la nostra Corte costituzionale, nelle sue decisioni, debba comunque pronunciarsi a ranghi completi. Però, altrove, contro il rischio di cui si è detto non si è rimasti impotenti, ma si sono introdotti degli antidoti, facenti leva proprio su una diversa organizzazione del lavoro dei giudici costituzionali. Così, in Spagna un recurso de amparo, per essere portato all’esame nel merito dell’intero Tribunal constitucional, deve prima superare un vaglio, rapido e severo, di 'importanza' (nel quadro della tutela dei diritti fondamentali), a opera di una delle Salas o delle Secciones di cui quello si compone: e così, dei circa 8mila ricorsi di tal genere, che ogni anno giungono alla sede di Calle Scarlatti, non sono neppure cento quelli che vanno a sentenza, impegnando così davvero a fondo quell’organismo nella sua interezza. Nulla su cui riflettere? Ci si permette di chiederlo, sebbene i tempi non siano molto propizi per riforme che allarghino le tutele effettive di diritti fondamentali e universali anziché cavalcare e alimentare le paure.

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