La notizia positiva è che la temuta ondata di violenze e attacchi suicidi, minacciati a gran voce dai taleban, è stata molto contenuta. Quella negativa è che la partecipazione all'appuntamento di sabato per scegliere il nuovo presidente della Repubblica afghano sembra sia stata minore rispetto al passato. Una disaffezione spiegabile in parte con la paura per la propria incolumità, con le difficoltà a raggiungere i pochi seggi elettorali, spesso molto distanti, e con le lunghe procedure imposte dai sistemi di sicurezza. Ma solo in parte: perché, purtroppo, sono palpabili la disaffezione e la delusione di gran parte della popolazione per l’Afghanistan di oggi, che appare solo come una pallida, smunta eco di quanto avevamo sperato alla fine del 2001, allorché venne abbattuto il crudele emirato islamico del mullah Omar.
Allora nutrivamo tutti grandi speranze: la comunità internazionale, gli Stati membri della Nato, le tante etnie di quel Paese martoriato da decenni di guerra civile seguiti all'intervento sovietico del 1979. Di questi sogni e aspirazioni è rimasto ben poco nell’Afghanistan di oggi, ancora scosso dalla povertà estrema, dalla corruzione, dagli scontri incessanti con i taleban, che non siamo mai riusciti a vincere, dalla produzione e dal traffico di droga che avvelena l’economia e la politica. Poco importa allora che dalle elezioni di ieri emerga come vincitore il presidente Ashraf Ghani o lo sfidante Abdullah Abdullah. Ciò che importa davvero è che non ci si incagli per mesi, come già nel 2014, in uno stallo politico fatto di accuse di brogli e contestazioni. Occorre avere e anche presto un presidente riconosciuto che dovrà gestire una fase di transizione difficilissima, la quale includerà di certo un compromesso necessario e doloroso con i taleban.
Dopo quasi vent’anni di presenza, infatti, gli Stati Uniti vogliono lasciare questo intrico di montagne e di molteplici etnie incastrato nel continente asiatico. Il presidente Trump ha fretta, troppa fretta. Anche se alla fine non ha firmato il deleterio accordo preparato in questi mesi con i ribelli islamisti, è chiaro che Washington intende smobilitare. Se lo farà, la Nato non potrà che seguire. E noi italiani, che siamo stati uno dei Paesi che più si è speso in termini militari, umani e finanziari, ci troveremo inevitabilmente a fare i conti con i costi del nostro impegno e con i risultati ottenuti. Più di cinquanta morti dal 2001: soldati italiani che hanno pagato con la vita l’impegno preso con quel popolo per garantire stabilità, scuole, ospedali, lavoro, libertà per uomini e donne. Ancor più alto il numero di feriti, che si aggiungono ai tanti miliardi spesi per le nostre truppe o nei programmi di cooperazione e di aiuto.
Sarebbe fin troppo facile dire che non ne è valsa la pena, guardando ai tanti, enormi problemi dell’Afghanistan attuale.
Facile, ma ingiusto: perché i fallimenti e le storture spiccano molto di più dei risultati positivi, che ci sono, anche se meno eclatanti. Dalle scuole femminili fiorite in tutte le province – e nel Paese l’analfabetismo delle donne superava il 90% – alla libertà di stampa, dagli ospedali che hanno abbattuto il tasso di mortalità infantile all’idea stessa che i rappresentanti politici debbano passare alla prova di un voto. Per quanto scalcinato e imperfetto, il nuovo Afghanistan si è così radicato che anche gli stessi taleban oggi non si scagliano quasi più contro le scuole femminili o il diritto delle donne a votare.
Ma è evidente che se l’Occidente – per sfinimento, calcolo elettorale o semplice distrazione – abbandona il campo ora, molto del poco che è stato fatto rischia di essere spazzato via. Il che non significa restare armi in mano, da anni di fatto non lo siamo più. Tuttavia, mantenersi al fianco dell’Afghanistan, per continuare ad aiutare e per cercare assieme un compromesso non disonorevole con chi abbiamo combattuto, rimane un dovere. Un dovere verso il popolo cui abbiamo fatto fin troppe promesse ma, ancor prima, per non essere costretti ad abbassare gli occhi dinanzi ai parenti dei nostri soldati morti in quella terra. Il cui impegno non possiamo né dimenticare né rinnegare.