Inermi. In chiesa a pregare, disarmati, fiduciosi nel prossimo e aperti alla speranza come solo gli universitari in un Paese in tumultuoso e caotico sviluppo possono essere. Eppure, la furia del terrorismo che si dichiara ispirato a un’altra religione non ha esitato a colpire durante la Messa degli studenti di Kano, Nigeria. Quanto sia esecrabile un simile attacco, quanto dolore susciti, quanta solidarietà fraterna e indignazione politica debba sollecitare è stato detto per una volta con confortante ampiezza anche in un’Italia a volte distratta nel rimirare il proprio ombelico.
Per questo merita soffermarsi su un aspetto non sempre illuminato, alla radice del fondamentalismo islamico – pur inquinato e strumentalizzato anche da altri interessi, spesso di segno economico – che dichiara guerra ai cristiani, in quanto tali e come rappresentanti di un altrettanto odiato 'Occidente'.
Proprio ieri, il pastore americano Terry Jones – già reo di aver bruciato nel marzo del 2011 una copia del Corano – ha ripetuto il suo censurabile gesto in Florida. Nell’Occidente considerato 'nemico' dai fanatici nigeriani di Boko Haram la condanna è stata unanime, l’isolamento del provocatore totale. Così come sotto inchiesta sono i soldati americani che hanno distrutto copie del libro sacro all’islam in Afghanistan. La sensibilità per le violazioni ai diritti dei cittadini musulmani è così accentuata in Europa che qualcuno accusa il Vecchio Continente di usare in casa propria due pesi e due misure rispetto alla tradizione cristiana fondativa.
Senza sottovalutare il valore dei simboli religiosi, e l’offesa che reca ai fedeli con il loro disprezzo, il rogo di un volume rimane assai meno grave dell’uccisione a sangue freddo di esseri umani raccolti in preghiera. Ma per le vittime di domenica, come per quelle in Iraq, in Pakistan, in Egitto... non si vede quella censura ufficiale, netta e senza ambiguità che ci si aspetterebbe dal mondo musulmano. L’estremismo di chi usa la violenza in nome di Dio è certamente un’aberrazione che nulla ha a che fare con la religione, come Benedetto XVI non si stanca di ripetere.
Va quindi evitato l’errore capitale di addossare all’islam la responsabilità dei massacri. Ma non si può nemmeno minimizzare, di fronte al dilagare di episodi di persecuzione anti-cristiana in Paesi a maggioranza o forte presenza musulmana, il ruolo che istituzioni e personalità religiose, politiche e culturali possono svolgere. Sappiamo bene come il terrorismo si possa limitare e anche sconfiggere facendo terra bruciata intorno a esso. Se non si contrasta la propaganda, se non si condannano gli attentati come semplicemente sbagliati e odiosi, se non si toglie spazio ai proclami degli imam incendiari, se non si oscurano i messaggi di addio dei kamikaze dipinti come martiri di una causa giusta, se non si interrompe il sostegno economico ai gruppi e alle moschee dove si predica l’ostilità verso le altre fedi, non si farà un solo passo avanti.
Dietro il reclutamento della manovalanza del terrore ci sono il contagio di al-Qaeda, il mito distorto di Benladen, le condizioni sociali ed economiche, l’idea di una rivalsa contro i presunti sfruttatori coloniali. Tuttavia, il clima in cui prospera il morbo fondamentalista è quello in cui si predica il wahhabismo (la corrente sunnita più radicale), la sharia come unica modalità di gestione dei rapporti politici e interpersonali, il discredito nei confronti degli altri culti in una concorrenza per le anime che rifiuta l’idea di libertà di coscienza (come dimostrano le leggi sull’apostasia).
Nulla di tutto questo è di per sé un incitamento alla violenza aperta, ma ne può essere l’anticamera. Ecco perché «un mondo nel quale alla dignità di ogni persona viene accordato il dovuto rispetto», un mondo in cui il perdono si faccia strada «nei dibattiti internazionali sulla risoluzione dei conflitti» – secondo l’invito lanciato ieri da papa Ratzinger alla Pontificia accademia delle scienze sociali – deve vedere non lo scontro di civiltà, ma un franco e onesto dialogo animato dalla sincera volontà di tolleranza. Ricordarlo con decisione a grandi e piccoli Paesi musulmani, ispiratori e finanziatori dell’espansione globale dell’islam, è un dovere a tutela delle minoranze inermi che fanno quotidianamente le spese di una perversa lettura dei precetti religiosi.