L’articolata analisi di Assuntina Morresi sul tema della maternità surrogata uscita su “Avvenire” martedì 22 agosto ha risposto in maniera puntuale e chiara alle più comuni motivazioni che da qualche parte si levano per giustificare una pretesa eventuale legittimità morale della gravidanza surrogata così detta “solidale”. L’articolo è efficace soprattutto perché mostra che una visione cristiana conduce a posizioni ragionevoli, ben fondate sia per il diritto che per il buon senso. In sintesi, al termine del pezzo, si capisce che nessuna gravidanza per altri potrà mai dirsi solidale. E il “consenso” sta divenendo l’idolo assoluto dei nostri tempi. Se mai fosse possibile completare e perfezionare il discorso, aggiungerei un’ulteriore considerazione.
Dato il benessere e la ricchezza diffusa di tante persone, nel nostro mondo, non ci sarebbe da stupirsi se una donna benestante intendesse veramente rinunciare a qualsiasi pur minimo rimborso spese per i nove mesi di gravidanza, portata avanti a favore di una parente o di un’amica. Il caso va contemplato, non viviamo su Marte e di gente che non ha bisogno di soldi e che intende essere generosa ce n’è. L’eliminazione di qualsivoglia riscontro economico sarebbe sufficiente per gettare una luce benevola e morale sulla gravidanza surrogata? La risposta è un chiaro no. Uno di quei casi, pochi ma essenziali, in cui il progresso tecnico della medicina deve fermarsi davanti al rischio di uno stravolgimento antropologico. Non si dona la gravidanza, si può donare la maternità. Si può fare da madri di figli altrui, bambini, vecchi soli, persone fragili. Si può anche passare per il dramma di non farcela a tenere un figlio proprio tanto da decidere di lasciare che un’altra donna gli diventi madre. Ma il mancato riconoscimento di un figlio che lo rende adottabile è gesto sofferto, è ferita e atto traumatico, come ben sappiamo. Se fosse un “dono”, lo si farebbe volentieri, a cuor leggero.
Oggi si preferisce, o si è costretti a vivere una vita di esperienze che durano quel che riescono e che possono, come in una vita a pezzi, a singhiozzi. Si dirà, allora: che problema c’è a vivere l’esperienza di una gravidanza come un episodio di nove mesi, che fra l’altro fa contenti altri? Ma la gravidanza non è un episodio. È l’inizio di un’intima ed efficace relazione, quella madre/figlio, che rimarrà per sempre e che già comincia a incidere sulla vita di chi nasce così come segna la donna che la porta in grembo. Sono già capitati casi per nulla estremi, di madri surrogate che alla nascita non si sono più volute staccare dal “loro” figlio. Nell’imbarazzo o nell’impotenza di qualunque giudice. Una donna benestante che vuole fare un regalo alla sorella le farà dono di una indicazione, quella che è l’essenza della maternità: prendersi cura di un altro, di altri, di chi è già vittima della cultura dello scarto. Si diventa madri attraverso vie diverse e complesse.
Ma se si rimane incinta, si è madri per sempre, qualunque sia la sorte cui destiniamo il frutto della nostra maternità. Il tema, ad ogni modo, ha una radice su cui varrà la pena riflettere di più, con toni pacifici: il desiderio di dare vita e di prendersene cura. Chi pensa ad avere un figlio, anche se tardi e senza accorgersi dell’assurdità di produrlo, di costruirselo, esprime in fondo un desiderio di vita e di cura. Che non va trascurato ma, con sana creatività, accolto.