Un anno dopo, abbiamo ancora nel cuore l’alzarsi in volo di quell’elicottero, nel cielo di Roma. Erano le 17 e 5 minuti di un pomeriggio quasi tiepido, di sole chiaro e acerbo. Il grosso apparecchio bianco si è sollevato da terra in un frastuono di pale e motori, lento ha preso quota, poi ha descritto una gran curva ed è tornato sopra San Pietro, come in un saluto. Suonavano a distesa le campane e noi, per strada, abbiamo alzato gli occhi. «È l’elicottero del Papa», ci siamo detti fra sconosciuti, e ci siamo fermati, lo sguardo al cielo. E nelle facce di molti, mentre l’apparecchio rombando ci sorvolava, uno sbalordimento attonito, e la tristezza di un commiato di cui ancora non ci si capacitava. Il Papa che rinuncia, che lascia San Pietro in elicottero? Per qualche istante ci è sembrato un brutto sogno, o la scena di uno di quei kolossal americani che raccontano immaginarie apocalissi.In molti abbiamo percepito lo strappo dell’abbandono da un padre molto grande, e caro. Non riuscivamo a capire, non ancora; e anzi avvertivamo in noi come l’eco di un terremoto nelle faglie profonde; come se la Chiesa stessa, la terra su cui siamo fondati, vacillasse.Abbiamo avuto bisogno di tempo e di lavoro interiore per metabolizzare le parole di Benedetto, negli ultimi giorni di papato: «Ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa...» E ancora: «Nei momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?».Noi però, smarriti, continuavamo a non capire. Forse la parola più consolante sul suo andarsene Benedetto l’ha pronunciata nell’ultima Udienza: «Ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è Sua. E il Signore non la lascia affondare». Ma pure con questa promessa addosso, quel 28 febbraio alle cinque, tanti di noi come orfani; e così strana e mai vista, Roma senza Papa, e il Tevere che se ne scorreva opaco e quieto come sempre sotto ai ponti.Poi il ricordo salta, come in una moviola accelerata, al 13 marzo. Il Conclave è da molte ore riunito. Piove, e sul porfido di San Pietro lucente si aggirano pellegrini e turisti irrequieti. Un gabbiano si è appollaiato sul comignolo della Cappella Sistina. Bagnati, intirizziti, aspettiamo. Ma quando la finestra si apre e viene annunciato: «Habemus Papam!», è allora, l’istante indelebile. D’improvviso, come da tutta Roma convocata, una folla comincia a affluire a passi svelti da viale della Conciliazione, da Borgo Pio; è un fiume inarrestabile, e sarebbe impossibile, in questo flusso, andare controcorrente. Fra estranei ci si sorride: «Hanno fatto il Papa!». Nel buio che cala, il travolgente andare a San Pietro di una folla lieta. In un contagio che commuove, e che razionalmente non sapresti del tutto spiegare. Forse è più felice avere di nuovo un Papa, dopo che il Papa se ne era andato?La tristezza di quel giorno, e poi la gioia del correre a San Pietro sotto la pioggia, all’annuncio: «Habemus Papam»! Un anno dopo rivediamo quei due giorni in prospettiva. Ora capiamo Benedetto che citava Romano Guardini, l’ultimo giorno: «La Chiesa non è un’istituzione escogitata a tavolino, ma una realtà vivente... Essa vive lungo il corso del tempo, in divenire, come ogni essere vivente, trasformandosi. Eppure nella sua natura rimane sempre la stessa, e il suo cuore è Cristo». Cristo, che non lascia la sua barca affondare. Che continua, vivo, nella faccia dei suoi. Non lo abbiamo visto noi stessi? Lo abbiamo sperimentato con gli occhi e col cuore – noi poveri cristiani, che per credere abbiamo bisogno di vedere.