Caro direttore,
le invio questa missiva, indirizzata ai capigruppo di Camera e Senato, con la speranza che mi aiuti a far sentire la mia voce.
«Agli illustrissimi signori capigruppo della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Sono uno studente universitario di 23 anni affetto dalla nascita da una triplegia spastica a causa della quale sono disabile al 100%, costretto su di una sedia a rotelle. Mi rivolgo a voi attraverso questa lettera, poiché ho appreso che in questo periodo inizia un dibattito in sede parlamentare sul tema dell’eutanasia, e questa notizia ha destato in me un sincero timore. La World Medical Association nel 1987 definì l’eutanasia come segue: “Atto volontario con cui si pone deliberatamente fine alla vita di un paziente, anche nel caso di richiesta del paziente stesso o di un suo parente stretto”: dunque anche nel caso di richiesta, da parte del paziente, di realizzare nei suoi riguardi un abbandono terapeutico, la cessazione di terapie adeguate.
Il primo motivo per cui dichiaro la mia più ferma contrarietà al fatto che lo Stato si esprima e legiferi su questo tema è che intravedo il pericolo che, mediante una legge, si giustifichi e si consenta la soppressione di un malato per alleviarlo da una sofferenza terribile, mentre è ormai dimostrato da numerosi studi a riguardo che, laddove vi fosse un dolore lancinante, il ricorso alle cosiddette cure palliative consente di lenire il dolore in maniera estremamente efficace. Piuttosto, il problema nel nostro Paese è l’inaccettabile mancanza della disponibilità a intraprendere siffatto cammino terapeutico in molti luoghi di cura. Non sarebbe meglio contrastare la sofferenza dei malati piuttosto che ucciderli in nome di una pietà falsa che cela ragioni sanitarie o economiche?
In secondo luogo, nella mia esperienza ospedaliera, che si compone di ben sei interventi chirurgici subiti, ho sperimentato quanto sia indifeso, impotente e vulnerabile un malato in un letto d’ospedale. E non vedo per quale motivo i medici, viste le difficoltà economiche in cui versa il settore sanitario nel nostro Paese, la pressione sociale e quella che ricevono dalle strutture sanitarie stesse, debbano essere considerati esenti dalla tentazione di manipolare i pazienti, spingendoli a chiedere l’eutanasia. Anzi, sono convinto che quando un essere umano patisce un dolore fisico, oltre a soddisfare i propri bisogni primari abbia bisogno di percepire nei suoi confronti un affetto, che è l’ultima realtà a cui ognuno di noi, di qualsiasi ceto sociale, età o sesso, si può attaccare di fronte allo struggimento che l’esperienza della malattia genera nell’infermo. Di fatto non ho mai chiesto di essere ucciso, tuttalpiù di avere una persona cara al mio fianco. Ritengo doveroso ricordare alle vostre persone che alcune misure legislative, una volta adottate, hanno effetti a lungo termine spesso imprevedibili. In questo caso però, già in altri Stati è possibile osservare gli effetti dell’adozione di simili norme. Non è nuovo, tra gli altri, l’esempio dell’Olanda, nella quale l’eutanasia fu introdotta nel 2000 per gli infermi maggiorenni capaci di intendere, di volere, e di farne richiesta scritta. Approvata la legge, i promotori hanno subito fatto notare che anche i minorenni possono soffrire in modo atroce. Così, nel 2002 la possibilità di chiedere l’eutanasia è stata estesa agli adolescenti sopra i dodici anni, ritenuti abbastanza maturi per richiederla. Ormai, il Parlamento olandese e belga discutono l’estensione dell’eutanasia ai malati di mente, e a quelli in terapia intensiva riservando la decisione ai medici. Tant’è vero che la Società belga di terapia intensiva, in un documento dal titolo “Piece of mind: end of life in the intensive care unit statement” (febbraio 2014), propone l’eutanasia del paziente anche senza consenso di questi. In quanto cittadino confido nel vostro impegno per la ricerca di un autentico bene comune, e mi affido alla vostra disponibilità a considerare le mie istanze durante lo svolgimento dei vostri lavori. Distinti saluti». Grazie, direttore, e buon lavoro.
Da cronista quale sono ho sempre pensato che se c’è un modo per vedere chiaro sui temi più difficili e controversi, attorno ai quali il cozzo delle opinioni contrapposte è clamoroso e spesso distorcente, questo è semplicemente il “farsi accanto”. Mettersi, cioè, a fianco delle persone che sono protagoniste delle storie che raccontiamo, che consideriamo esemplari e dalle quali, magari, qualcuno vorrebbe strumentalizzare, distillando “verità” in forma di legge. Assumere, per quanto possibile, lo sguardo di queste persone, ascoltare con le loro orecchie, comprenderne le attese, riconoscerne timori e speranze, rispettarne la certamente speciale intelligenza delle cose. Questo non significa rinunciare alla “mia” responsabilità, ma viverla in relazione con l’altro e non in sprezzante e sentenziosa autonomia. Ho ascoltato Dj Fabo, con rispetto. E tantissimi altri lo hanno fatto. E ho dissentito, con rispetto e fermezza, da quanti hanno deciso di “usare” per una campagna pro-eutanasia quella voce, quella vita e quella morte. Sulle pagine di “Avvenire” non abbiamo mai preteso di usare alcuna vita e alcuna morte. Non accadrà neanche oggi. Sempre abbiamo chiesto di “far parlare” non soltanto quelli che vogliono morire (o vogliono far morire i propri congiunti e amici), ma tutti coloro che vivono sulla loro pelle di malati o di disabili e di familiari di malati e di disabili, una condizione dura e umana e intendono continuare a vivere con dignità. Perciò la voce di Lorenzo Moscon risuona oggi dalle nostre colonne nella sua libertà e nella sua verità, ed è giusto che coloro che fanno le leggi (in un Paese dove, purtroppo, le leggi vengono ormai fatte anche in diverse corti, diventate sede di creativa interpretazione del diritto) la ascoltino, così com’è: appassionata e chiara. Perché le preoccupazioni a cui Lorenzo, da cittadino e da disabile, dà forza sono più grandi e più gravi di ciò che allo stato delle cose viene evocato dagli articoli del disegno di legge sul «fine vita» (ovvero sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento) all’esame della Camera, ma le cronache sconcertanti e tristi che si rincorrono e le forzature che anche nel nostro ordinamento avvengono, persino contra legem e sulla base di ciò che altri Paesi hanno stabilito, non lasciano tranquilli e segnalano le disumane derive in atto. Con rispetto e fiducia, il rispetto e la fiducia ancora possibili in un Paese civile come il nostro, mi metto semplicemente accanto a Lorenzo Moscon: che lo si ascolti, che lo si ascolti davvero.