Basta! Saremmo tentati di fermarci qui nel commentare l’ennesimo, terribile, disastro idrogeologico. Non abbiamo ancora finito di piangere i morti della Cinque Terre e della Lunigiana che già dobbiamo piangere quelli di Genova, attraversata da impetuosi fiumi di acqua e fango. E neanche due settimane fa era toccato a Roma. E prima ancora in Campania. Un elenco amaro e luttuoso che temiamo non si fermerà qui. Proprio per questo ci permettiamo di gridare: «Basta!».Non è solo una beffarda coincidenza che proprio ieri, 4 novembre 2011, si sia ricordato un lontano – ma ancora ben presente nella memoria – 4 novembre, quello del 1966 quando l’Arno invase Firenze. Allora l’Arno, ieri i meno noti, ma altrettanto distruttivi, Bisagno e Fereggiano. Stesse immagini di argini scavalcati dalle onde, di strade trasformate in torrenti, di auto portate via come foglie secche, ammucchiate, accartocciate. Urla, gente che cerca scampo "guadando" vie e piazze. E poi, passata la piena, uno spesso tappeto di fango. Ieri come 45 anni fa.Non solo una coincidenza. «Il pericolo per l’Arno c’è ancora», ha avvertito il capo dipartimento della Protezione civile Franco Gabrielli intervenendo ieri proprio a un convegno sull’alluvione del 1966. Fiume ancora non messo in sicurezza. E il sindaco di Firenze, Matteo Renzi si scaglia («È una vergogna!»), contro «una burocrazia che ci sta inghiottendo: è inaccettabile che per fare una buca occorra il parere di 19 enti diversi». Ed è quasi una dichiarazione di resa quella del sindaco di Genova, Marta Vincenzi, quando dice che «l’unica cosa da fare è mettersi in salvo», aggiungendo, a proposito dell’allarme lanciato nei giorni scorsi, che «se c’è una cosa di cui mi rammarico, è di non aver fatto più "terrorismo"».Le parole vanno governate sempre, ma le emergenze vanno finalmente prevenute. Ed è sul territorio che si può e si deve fare il lavoro decisivo. Invece c’è un Paese che sembra incapace di prevenire e affrontare le emergenze che a ogni perturbazione tornano a colpire. Certo, le piogge di questi ultimi mesi appaiono più abbondanti e più concentrate in poco tempo e spazio. Più del passato. Ce lo dicono i meteorologi, avvertendo che anche questi sono segnali dei mutamenti climatici. Allarmi poco ascoltati. Ancor meno sono le richieste, rilanciate a ogni disastro, di una vera e completa messa in sicurezza del territorio. Avvenire ha più volte raccontato, elencato, descritto quello che bisognerebbe fare. Lo si sa da decenni. Praticamente da sempre. Servono finanziamenti, tanti. Almeno 40 miliardi di euro. Ma sarebbero davvero soldi spesi bene. Se c’è una grande opera da fare in Italia è proprio la messa in sicurezza di fiumi, torrenti, pendii, frane. Questa sì – più di tante più o meno utili infrastrutture – una grande opera per passare alla storia, per essere ricordati. Lo dovrebbe capire chi governa, a Roma come a Genova, a La Spezia come a Massa o a Firenze. E invece i pochi soldi stanziati per il risanamento idrogeologico non aumentano, diminuiscono. Il miliardo stanziato dopo le terribili colate di fango dell’autunno 2009 nel Messinese, è stato via via utilizzato per le nuove emergenze. Non per prevenire ma per riparare. Sempre dopo, sempre a rincorrere.E allora c’è poco da stupirsi se, 45 anni dopo, Genova è come Firenze. E Firenze corre il rischio di essere come allora. In fondo, ci spiegava due settimane fa un esperto, «i luoghi che si allagano sono sempre gli stessi, anche perché l’acqua, come è ben noto, segue le pendenze». Già, come è ben noto... Eppure ogni volta è un dramma. E ci si deve rimboccare le maniche per spalare acqua e rovine. Nel 1966 Firenze fu invasa dagli "angeli del fango", migliaia di giovani di tutto il mondo giunti a salvare la culla della cultura. Anche oggi in molti lo hanno già fatto, portando in Liguria e in Toscana generosità e dedizione. Ci permettiamo un suggerimento a una politica che passato il "disastro" torna a distrarsi: facciamoli lavorare prima quei giovani, non dopo. Usiamo bene la terra, fermiamo le frane, investiamo in sicurezza, risparmiamoci tutto il possibile fango.