La “Piazza della Chiesa” a Mosul, dove questa mattina il Papa pregherà per le vittime della guerra. Dopo aver lasciato Mosul, Francesco si trasferirà a Qaraqosh - Avvenire
«Quelli del Daesh hanno preso mia madre Labiba all’ospizio e l’hanno caricata su un pulmino. L’avevano portata lì a forza, assieme a tutti gli altri anziani cristiani, dopo tre mesi di occupazione della città. L’hanno portata al confine con il Kurdistan per lasciarla andare assieme ad altri vecchi. Ma lei è voluta tornare indietro, non ha voluto lasciare Mosul», racconta Majdi Hamid Tobia Naqqash. È il primo cristiano rientrato nella “capitale irachena del Daesh” a fine agosto del 2017, dopo che il 9 luglio il premier Haider al-Abadi ne aveva annunciato la liberazione.
Majdi, 45 anni, vive nella casa semi diroccata da dove i diavoli con la bandana nera in fronte e il mitra in mano prelevarono l’anziana madre. Un cortile fra mura distrutte dalle esplosioni, un divano sfondato, un lavandino e una stanza scampata alla bombe nella parte antica di Mosul sono quanto basta per sopravvivere. Per raggiungere questa dimora si attraversa il Tigri passando sul “ponte vecchio”, distrutto durante l’assedio e ora ricostruito con una anonima struttura d’acciaio. Lungo la riva Ovest del Tigri si erano asserragliati gli ultimi irriducibili del Daesh, mentre la popolazione civile rimasta intrappolata fra i combattimenti ricorda ancora di aver mangiato grano crudo per sfamarsi.
«Non sono sposato e quando “abuna” Emmanuel, il direttore del campo profughi Ashti 2 a Erbil, ha detto che ognuno doveva pensare a trovarsi una sistemazione, mi sono organizzato. I primissimi cristiani erano già rientrati a Qaraqosh: ho chiesto un passaggio e sono rientrato a Mosul».
Figlio di una famiglia di scalpellini, per tre anni ha fatto il custode della chiesa dell’orologio, la storica sede dei domenicani trasformata dal Califfato in un patibolo per impiccare, con delle funi annodate alle alte finestre sventrate, gli oppositori. Da quando l’Unesco ne ha iniziato il restauro, Majdi fa il custode del Seminario. Suo fratello e sua sorella vivono ancora con le loro famiglie ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil, un’altra sorella è in Australia. Per Majdi il ricordo di Mosul è stato irresistibile, come quello struggente della madre: «L’ultima volta che ha parlato al telefono con mio fratello è stato per dire che lei, scesa dal pulmino del Daesh, sarebbe tornata all’ospizio a Mosul. Poi non l’abbiamo più sentita. Due donne anziane che conosco mi hanno detto che era stata ricoverata all’ospedale e, 10 giorni prima della liberazione, è morta. Non sappiamo dove sia sepolta».
Majdi, come tutti, è contento che oggi papa Francesco venga a pregare nel piazzale da cui si accede alla chiesa dell’Immacolata Concezione, anche se non potrà vederlo: «Spero che porti in messaggio forte per i politici perché facciano qualcosa di importante per la pace e la riconciliazione». Difficile ricostruire, quando prima si devono sgombrare macerie su macerie. «Non ho un lavoro, è rientrato solo un terzo della popolazione e sicuramente chi adesso è in Australia o in Svezia non torna».
Difficile ricostruire lo spirito di Mosul: «Dicono che sono rientrate 60 famiglie cristiane, ma in realtà sono solo 30. E molti sono uomini che lavorano qui, cercano di sistemare la casa, e la domenica tornano dalle famiglie a Erbil. Non c’è ancora fiducia per tornare con le donne e i figli». E quando gli si chiede del futuro, con una smorfia Majdi abbassa lo sguardo e preferisce cambiare discorso: «Ormai sono vecchio», borbotta con amara ironia. La mancanza di speranza è come una malattia che fa invecchiare prima del tempo.
Intanto nella piazza dell’Immacolata concezione, con un blindato subito dopo il check-point all’ingresso e soldati di pattuglia e appostati ad ogni angolo, gli operai stanno finendo i preparativi: è lì che papa Francesco pronuncerà una preghiera di suffragio per le vittime della guerra. Dietro il palco in allestimento una viuzza dà su un incrocio sbilenco: a destra la chiesa ortodossa, a sinistra l’ingresso dell’episcopato siro cattolico ridotto in macerie, e ancora più in là l’ingresso alla chiesa siro cattolica dell’Immacolata semi distrutta dai bombardamenti.
Sul muro a fianco del portone la scritta in arabo: «Vietato entrare secondo le indicazioni dello Stato islamico». Durante l’occupazione gli uomini del Califfato non hanno fatto esplodere la chiesa perché era diventata la sede degli uffici scolastici dove si riscrivevano i libri di testo e si modificavano i programmi di insegnamento delle “madrasse”. Per strada una giovane donna velata riconosce un sacerdote rogazionista di Qaraqosh: «Abuna, sono contenta che viene il Papa, sono contenta che state tornando. Mosul non può fare a meno dei cristiani». E chiede di poter scattare un selfie.