È, forse, il più drammatico banco di prova per la tenuta della democrazia in America Latina. Nelle piazze venezuelane – in fermento dal 4 aprile, con un bilancio di oltre ottanta vittime – si consuma l’ultimo atto di un conflitto di lungo corso. Le cui radici affondano nella cosiddetta "prima Repubblica", quella instaurata alla fine della dittatura di Marco Pérez Jiménez, nel 1958. Un sistema senza dubbio stabile quanto disfunzionale, poiché basato sul patto tra i principali partiti nazionali. Oltre al potere e relative reti clientelari, essi si spartivano la principale risorsa del Paese: la rendita petrolifera. Il greggio non era solo il fondamento dell’economia bensì la stessa garanzia di sopravvivenza di tale pseudo-democrazia consociativa. Con i soldi dell’oro nero trasformati in aiuti, le classi popolari venivano compensate dalla cronica emarginazione dalla scena pubblica e dall’arena decisionale. Crollato il prezzo internazionale del petrolio alla fine degli anni Ottanta, l’intero meccanismo è andato in pezzi. Il 7 febbraio 1989, la popolazione delle baraccopoli – migliaia e migliaia di persone – scesero dalle colline intorno a Caracas per protestare contro una serie di tagli decisi dal governo. L’esercito intervenne: fu un massacro. Il fenomeno Chávez è maturato in quella crisi.
Certo, ci sono voluti dieci anni – e un golpe fallito – perché l’autoproclamato erede di Simón Bolívar conquistasse, democraticamente, la presidenza. L’ex parà – l’outsider, l’antipolitico, l’alternativa all’élite corrotta e incapace – ha avuto gioco facile non solo a vincere. Bensì a smontare, pezzo a pezzo, il "vecchio sistema" da cui i più erano sempre stati relegati i margini. Quando il conflitto tra l’ansia di rifondazione del leader e i contrappesi istituzionali propri di una democrazia, per quanto malandata, si è fatto stridente, Chávez l’ha risolto con il metodo del populismo classico: svuotarli senza negarli. Come insegna il politologo Carl Mudd, i caudillos "salvatori" delle democrazie diventano complici del loro assassinio. Pochi, all’epoca, ci hanno badato: con il valore del greggio moltiplicato per sette nei primi anni del Duemila rispetto al decennio precedente, il presidente ha dato vita un capillare sistema di sussidi. Che gli ha garantito la fedeltà di milioni di poveri. Oltre che delle Forze armate, tuttora spina dorsale del governo. L’intera impalcatura ha cominciato a scricchiolare dal 2013 quando, alla morte di Chávez – sostituito dal "grigio" Nicolás Maduro – si è sommato il crollo del prezzo dell’oro nero: nel 2016, un barile è arrivato a costare meno di trenta dollari. Un duro colpo per qualunque Paese petrolifero. Quasi mortale nel caso del Venezuela che sul greggio ha sempre basato politica ed economia. Entrambe sono, dunque, ora al collasso. Incalzato dall’opposizione, il governo Maduro ha reagito con una chiusura sempre più allarmante: blocco del referendum per la sua destituzione, tentativo di esautorare il Parlamento ribelle, annuncio della convocazione di un’assemblea per riscrivere la Costituzione, quella voluta da Hugo Chávez. La mossa ha suscitato un crescente malumore anche nelle file governative, dalla procuratrice generale Luisa Ortega Díaz ai militari. L’implosione interna è uno dei possibili scenari futuri. L’alternativa, a cui le parti sembrano rassegnate, è lo scontro a oltranza. Dello stesso parere, buona parte dell’opinione pubblica internazionale.
Tra le poche voci dissonanti, quella di papa Francesco che, lo scorso autunno, si è impegnato a facilitare la mediazione dell’Unione degli Stati sudamericani (Unasur). Il tavolo, però, è saltato dopo il primo incontro per l’intransigenza dei partecipanti. Il dialogo, cioè il riconoscimento di qualcosa di buono nell’avversario, non è un’opzione contemplata nell’eterna lotta venezuelana tra pseudodemocrazie basate sul petrolio, di tono populista o oligarchico. Finora il Paese – non il solo nel Continente – è rimasto intrappolato in questa tragica danza. Dovrà farlo all’infinito? Sì, se una parte farà piazza pulita dell’altra. Il dialogo fra i due Venezuela non è, dunque, solo una questione etica per evitare lo sbocco violento. È un’occasione storica per costruire una democrazia che non sia solo una formula vuota o un patto tra élite. Il tempo stringe: il 30 luglio Maduro ha convocato le elezioni dell’Assemblea costituente. La riscrittura delle regole rappresenterebbe una pericolosa deriva in senso autoritario. Il Venezuela e l’America Latina non meritano di tornare indietro, all’era dei regimi.