mercoledì 8 novembre 2023
Le proporzioni umanitarie della tragedia nella Striscia impongono un disegno che consenta alle parti un punto di contatto. E l'antica teoria di Oslo torna sulla scena
La città di Hebron, in Cisgiordania

La città di Hebron, in Cisgiordania - ANSA

COMMENTA E CONDIVIDI

«Due Stati per due popoli in pace e sicurezza». A un mese dall’eccidio del 7 ottobre è difficile trovare qualcuno che si dichiari ostile all'antica soluzione di Oslo. La formula è sufficientemente datata e altrettanto erosa dal tempo che appoggiarla, almeno formalmente, non costa nulla: non a Putin o a Xi Jinping, non a Erdogan o alla Ue, e nemmeno alla petro-monarchie del Golfo. Per questo essa risorge come una fenice dalle proprie ceneri, trascinando nel suo volo quasi un secolo di utopie e delusioni, di accordi disattesi e di nuove prospettive di intesa.

Da anni Israele – e con esso la quasi totalità del Paesi arabi, a cominciare da quelli che finanziano Hamas – aveva messo la sordina alla questione palestinese, paga di una relativa tranquillità sul campo e della sonnecchiante neutralità di Fatah e del suo anziano leader Abu Mazen in Cisgiordania. Perfino i sauditi, capifila di quel “fronte dell’indifferenza” che aveva relegato il nodo palestinese nel sottoscala dei problemi del mondo arabo, avevano accettato il disegno americano di una grande rete di moderne monarchie in grado di riconoscere e stabilire proficui rapporti commerciali con lo Stato di Israele (i famigerati Accordi di Abramo), ridimensionando il secolare vulnus palestinese nel rituale appello ai Due Stati.

Tuttavia, le proporzioni umanitarie della tragedia di Gaza impongono ora un disegno che consenta alle parti un punto di contatto. A cominciare da una Striscia sradicata da Hamas e guidata da un direttorio arabo moderato, a guida Fatah, quella Fatah estromessa con il sangue da Hamas nel 2007 e da allora arroccata nel torpido benessere piccolo-borghese della Cisgiordania nei cui confini si esaurisce il potere di controllo di Abu Mazen. E naturalmente dal ripristino dell’utopia dei Due Stati.

Ma è possibile tornare allo spirito degli Accordi di Oslo, alle trattative protrattesi inutilmente fino agli anni Duemila? È possibile immaginare la creazione di uno Stato palestinese quando alla destra di Benjamin Netanyahu si muove una figura come quella di Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra dal poco equivocabile nome di Otzma Yehudit (“Potere ebraico”), il cui programma politico, mentre in questi giorni il ministro distribuisce fucili d’assalto ai coloni, prevede non l’abbandono, come ci si azzarda a pensare, ma l’annessione della Cisgiordania, nella quale di coloni ce ne sono 500mila? Responsabili della questione palestinese lo sono tutti quanti: da Israele (che alla soluzione Due Stati/Due popoli non ha mai sostanzialmente creduto) al mondo arabo, agli alleati di entrambi. Il risultato - quattro guerre arabo-israeliane, due guerre libanesi, due Intifade, una lunga scia di attentati terroristici - è sotto i nostri occhi.

Il viaggio del segretario di Stato americano Blinken nelle capitali mediorientali – se pur viziato dal sospetto e dall’ostilità ben dissimulata di molti – è finora l’unico dei tentativi di progresso che abbia riacceso lo sguardo sulla formula di Oslo e insieme la dimostrazione che l’intera famiglia araba, quella sciita iraniana come quella sunnita saudita, giordana, egiziana, turca, irachena hanno la possibilità di contribuire a quel miraggio dei Due Stati che da sempre la Santa Sede invoca e che sulla carta parrebbe irrealizzabile, ma che potrebbe ricondurre al dialogo Israele e l’Anp. I possibili sostituti sul campo già s’intravedono. Come il “figliuol prodigo” di Abu Mazen Mohammed Dahlan (in esilio dorato ad Abu Dhabi)o l’antico leader dell’intifada Marwan Barghuti, che sta scontando cinque ergastoli. La fenice sta ancora volando.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: