Piccoli passi avanti verso la Brexit. Scarsa, ma non più nulla, è la possibilità che la separazione tra la Gran Bretagna e l’Ue possa avvenire secondo le modalità sancite dall’accordo raggiunto (e secondo le ultime indiscrezioni «migliorato») tra le parti lo scorso novembre. Decisivo è l’esito del voto atteso questa sera a Westminster quando i parlamentari torneranno a esprimersi dopo il no dell’Aula del 15 gennaio. Dopo settimane di estenuanti trattative, ieri, l’Ue ha lanciato a Londra la sua ultima proposta sul “backstop”, il meccanismo di garanzia del confine tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord su cui il dialogo si era inceppato.
In un incontro last-minute a Strasburgo, il presidente della Commissione Jean Claude-Junker ha offerto alla premier Theresa May la «maggiore chiarezza giuridica del “backstop” tanto auspicata dai falchi brexiteer del partito conservatore da cui dipende la tenuta della maggioranza. Le autorità di Dublino hanno parlato di «sviluppi positivi». In serata anche il ministro britannico David Lidington ha parlato di «garanzie legalmente vincolanti», di un accordo «migliorato» soprattutto sul 'backstop': ci sarebbe un’intesa per sostituirlo con altri strumenti entro dicembre 2020. Se anche oggi il Parlamento dovesse respingere l’accordo, il futuro della Brexit verrà deciso in altre due votazioni ravvicinate. Domani, i parlamentari potrebbero essere chiamati a votare per una separazione “no deal” e, nel caso anche questa opzione venisse respinta, giovedì, per il posticipo della Brexit. (Angela Napoletano)
Fuori dalle «Houses of Parliament » regna la normalità. Nella piazza del Parlamento una statua di Churchill osserva i gruppi di turisti che sventolano nel sole le bandiere delle 53 nazioni del Commonwealth. Dentro, oltre i controlli di sicurezza e i poliziotti armati fino ai denti, deputati e giornalisti si muovono indaffarati come ogni giorno.
È soltanto parlando con due rappresentanti sui versanti opposti del dibattito politico – uno conservatore, Nicky Morgan e l’altro laburista, Jon Cruddas – che si sente la crisi che sta attraversando la democrazia più antica del mondo. Perché i due dicono di un primo ministro «incapace di trovare una maggioranza in Parlamento, che pure esiste», di un Paese «stanco dei continui ritardi nel dare vita alla Brexit», della frustrazione della gente e dei politici «perché tante questioni chiave, come Sanità e Istruzione, vengono accantonate visto che la Brexit fagocita tutto e ci paralizza». «Nessuno sa veramente che cosa succederà», dice Jon Cruddas, Labour, 57 anni, cattolico. “Remainer” convinto, ma desideroso di rispettare il risultato del referendum del giugno 2016, ha deciso di votare contro l’accordo di Theresa May e contro il “no deal”, il recesso senza accordo dalla Ue, ma a favore dell’estensione dell’articolo 50. «Esiste una coalizione maggioritaria in Parlamento, che attraversa destra, sinistra e centro, che è per un accordo con la Ue, ma la premier non è in grado di costruirla», dice il parlamentare, «penso che Theresa May non abbia l’agilità mentale, la creatività, la capacità di innovazione che richiedono il compito che le è toccato. Dopo l’ultima tremenda sconfitta dello scorso gennaio, la premier aveva avviato un confronto che comprendeva anche noi laburisti, per un governo di unità nazionale. Poi i falchi conservatori l’hanno bloccata. Theresa May si è chiusa a Downing Street, lontana dal Parlamento, ansiosa di salvare la destra, anziché cercare un accordo al centro sulla Brexit. Sono quasi vent’anni che sono a Westminster e non mi ricordo una crisi così. Sembra quasi che i muri ci stiano cadendo addosso. È come se ogni giorno i problemi diventassero più grandi e i politici venissero rimpiccioliti nella loro capacità di risolverli. Il Paese è frustrato. Ha perso la fiducia nei politici».
Cruddas riconosce anche le mancanze del suo leader, Jeremy Corbyn, che si è impegnato a cacciare il governo per avere nuove elezioni generali, anziché collaborare per trovare una Brexit che funzioni. Per non parlare della confusione della posizione laburista che non è mai stata chiara, prima a favore di un secondo referendum, poi contro. Nicky Morgan, 43 anni, Tory, anglicana praticante, ex ministro dell’Istruzione e delle pari opportunità nel governo di David Cameron, presidente della commissione del Tesoro con Theresa May, riecheggia le parole del suo rivale Cruddas. Anche lei “Remainer”, ha, però, scelto di votare a favore dell’accordo che Theresa May ha firmato con la Ue. «Penso che sia l’unica soluzione che ci possa dare un po’ di certezza perché metterebbe la parola fine alla fase di recesso della Gran Bretagna dalla Ue, anche se poi bisognerà negoziare le condizioni della nostra dipartita. Non credo, però, che il Parlamento voterà per la May e chiederà un’estensione». Molto critica con la premier, Morgan pensa che Theresa May dovrebbe dimettersi «perché non ha mai cercato quella Brexit per la quale c’è una maggioranza in Parlamento. Un tipo di accordo che mantenga il Regno Unito nel singolo mercato o nell’unione doganale. Ha scelto, al contrario, una sua versione della Brexit senza avere i voti per sostenerla ». L’ex ministro dell’Istruzione di David Cameron si sente in colpa perché è stato il suo partito conservatore a proporre quel referendum del giugno 2016 anche se adesso non è in grado di gestire il risultato.
«Mi dispiace per i membri della mia circoscrizione, per tutta l’incertezza nella quale li abbiamo gettati e, certo, il nostro è un Paese più diviso di quello che avevamo tre anni fa», spiega, «Le minacce che ricevo ogni giorno, via social network, posta elettronica o anche per telefono, mi confermano una violenza che una volta non esisteva. Due persone sono state incriminate per gli abusi ai quali mi hanno sottoposto. Dopo l’omicidio di Jo Cox, la parlamentare uccisa alla vigilia del referendum del giugno 2016 sulla Brexit, la polizia prende più seriamente le denunce di tanti parlamentari come me mentre prima ci voleva un po’ di tempo prima di avere una risposta adeguata».